domenica 12 febbraio 2012

LEBBRA

Da cosa voleva essere guarito quell’uomo che supplica Gesù in ginocchio? Da quale male voleva essere purificato? Perché una malattia così diffusa e così grave è caricata da un così pesante carico di impurità. Qual è il vero male che fa soffrire: la malattia fisica o il suo essere considerato impuro, non degno, disumano? 
Non ci è forse immediato pensare a quanta sofferenza avrebbe patito un lebbroso ai tempi di Gesù. Ci è forse facile immaginarlo pensando al lebbroso abbracciato da san Francesco, oppure guardando qualche foto o filmato in cui una grande santa (ancora beata) dei nostri tempi mette tutta la sua vita a servizio della vita di questi malati: la beata Teresa di Calcutta. Di storie come queste ce ne sono a milioni. Molte sconosciute. Tantissime taciute. Ancora oggi. Perché la lebbra, ancora oggi, miete centinaia di migliaia di vittime ogni anno. Ma fin quando il problema sembra essere lontano da noi, pare inesistente. E noi, abituati a ricevere ogni giorno da giornali e tv cifre impressionanti di persone morte, rimaniamo oramai impermeabili a problemi che ci trasciniamo da secoli. Impermeabili, quindi indifferenti. Quindi lebbrosi, perché disumani. 
C’è una lebbra che colpisce la carne: ti sfigura, ti mutila, ti rende orribile agli occhi delle persone, ti rende dis-umano, cioè non più uomo, al limite di uno strano oggetto. C’è una lebbra che colpisce il nostro modo di stare nella vita: l’indifferenza. Essere indifferenti significa non gustare le differenze che ci rendono unici. Essere indifferenti significa non mettere al primo posto il bene, ma il benessere (il nostro benessere). Stare bene prende il posto del vivere bene, del vivere una vita buona e una vita buona, da quanto posso capire, è una vita che non ruota soltanto attorno al nostro ombelico. Dai racconti dei nostri nonni ci arriva spesso la descrizione di come si viveva la vita “una volta”. Quasi sempre c’è nostalgia, ma non di quella pesante e noiosa, di quella che non fa andare avanti, piuttosto una nostalgia che fa capire come si possa davvero vivere diversamente, anche in tempo di guerra o, diremmo noi oggi, di crisi. Perché è vero che la vita è dura quando è piena di problemi, ma se questi problemi sono condivisi e affrontati insieme, forse diventa più facile continuare a vivere ogni giorno che il buon Dio ci vuole donare. In quei racconti si parla di poco cibo condiviso tra tanti fratelli, di rinunce fatte col sorriso nonostante la fatica, per un bene maggiore che si intravvedeva all’orizzonte. Forse i nostri nonni erano più capaci di sperare, cioè di vedere un senso anche nelle prove e nelle crisi che vivevano. Forse i nostri nonni erano meno indifferenti ai problemi degli altri perché quel poco che avevano lo percepivano come importante e come un dono, arrivato dal Cielo. A loro nulla era dovuto. Nemmeno una guarigione inaspettata. I nostri nonni sapevano che è la speranza la cura per la lebbra dell’indifferenza. 
Il lebbroso di questa pagina del vangelo (Mc 1,40-45) non si aspettava di essere guarito, ma lo sperava da quel Maestro capace di guarire la vita, capace di purificare da ogni macchia, capace di toccare le più vergognose piaghe che affliggono l’uomo. Per questa sua speranza viene guarito, per questa sua fiducia in Gesù viene salvato e può finalmente ritornare ad essere uomo. La prova di questo suo ritorno alla vita è la sua prima disobbedienza al consiglio di Gesù di mantenere segreta la sua guarigione: ritornare a vivere una vita vera, da uomini, da figli, non lascia indifferenti, non lascia “lebbrosi”, ma fa scaturire da questo miracolo una grande gioia che si vuole condividere. Fa venire voglia di scappare dai lazzaretti in cui si è vissuti rinchiusi fino a quel momento e di ritornare in città, di scappare dai deserti vuoti e senza senso per tornare a vivere, sperando, tra le case degli uomini.


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