giovedì 28 aprile 2011

DECALCOMANIE DECORATIVE



Roba da non crederci. Appunto.

Ogni tanto si va a Roma. Per me andare a Roma vuol dire, tra le tante cose, respirare a pieni polmoni e con gli occhi aperti. Non so il perché. Ma da quando capisco di essere al mondo, ogni volta che tocco il sacrosuolo dell’Urbe, mi pare di essere in un luogo che mi appartiene, una sorta di seconda (o terza) casa. La stessa sensazione l’ho provata durate i due viaggi a Gerusalemme.
Gerusalemme e Roma. Città eterne. Città sante.
Ogni tanto si va a Roma, dicevo, e la compagnia cambia ogni volta.
Ogni tanto qualcuno accompagna me.
Ogni tanto io accompagno qualcuno.
Quest’ultima volta i compagni di viaggio erano gli abitanti della periferia della terra di mezzo umana, cioè i pre-adolescenti. Qualcuno li chiama P.A..
Sigle strane, usate forse per superare l’imbarazzo di un troppo stretto “bamb-ini” o di un troppo diminutivo “ragazz-ini”. Chiamarli “ragazzi” è colloquiale, ma pare il vestito più adatto a loro, che in verità si sentono tremendamente spinti verso l’età adulta (forse molto di più di certi adolescenti patentati), ma ancora, più o meno palesemente, bisognosi di una tata o di un tato che li aiuti a trovare nella borsa da viaggio le loro mutande, diligentemente piegate e riposte dalle loro mamm-ine.
Di questi piccoli cuccioli d’uomo colpiscono tante cose: i vestiti, la pettinatura, il modo di camminare, di parlare, di urlare!, di mangiare, di sentirti ma non sempre di ascoltarti, di seguirti per strada se sai entrare in sintonia con loro e con i loro interessi. Di ascoltare musica!
La musica che ascoltano questi ragazzi è forse la cosa che mi ha lasciato più stupito di questi tre giorni romani. Ci aspettavamo (perché non ero il solo a pensarlo) che le loro preferenze cadessero su tutte le variazioni cromatiche del fibroso rapfuturisco, del rimoso hiphop statunitense, della dance più inflazionata del momento. Tutta roba bella ritmosa e… e forse basta.
E invece… ? E invece no.
Il loro gusto cade sulla profondità, sulla comprensione del testo. Per questo la predilezione statistica per i testi italiani (English teachers sveglia!!!), per i cantautori di anni passati, per la poesia musicale, per le rime non messe lì a caso per riempire la durata di qualche battuta, ma perché sanno dire, come nulla riesce, ciò che si prova. Per questo la loro passione per la musica, per imparare a suonare uno strumento, che permette a chi ci prova e riesce di fissare nella realtà la musica che vede con gli occhi e che si sente addosso (concetto indescrivibile a parole per i non musicisti!).
Come non accorgersi di questo loro interesse e non tenerne conto, in futuro, per comunicare con loro, per farli appassionare alle Cose che loro stessi ricercano in quelle note così “vecchie”, ma sempre capaci di parlare, per farli innamorare della Vita?

Volevo citare, come conclusione del post, una cosa che ho sentito in radio Domenica sera, prima di partire per Roma. Siccome sono abbastanza impedito e, tra l’altro, non so nemmeno se si possa linkare quei tre minuti di programma, trascrivo tutto condividendo il video che ha fatto da conclusione a quella lettura. Non so perché abbia(-no) scelto quella canzone, ma è andata così. Leggere e ascoltare.

Che vita!


«Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro,
oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro.
Non potete servire Dio e la ricchezza.
Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita,
di quello che mangerete o berrete,
né per il vostro corpo, di quello che indosserete;
la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?
Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono,
né raccolgono nei granai;eppure il Padre vostro celeste li nutre.
Non valete forse più di loro?
E chi di voi, per quanto si preoccupi,
può allungare anche di poco la propria vita?
E per il vestito, perché vi preoccupate?
Osservate come crescono i gigli del campo:
non faticano e non filano.
Eppure io vi dico che neanche Salomone,
con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro.
Ora, se Dio veste così l’erba del campo,
che oggi c’è e domani si getta nel forno,
non farà molto di più per voi, gente di poca fede?
Non preoccupatevi dunque dicendo:
“Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”.
Non preoccupatevi dunque del domani,
perché il domani si preoccuperà di se stesso.
A ciascun giorno basta la sua pena».





p.s. il titolo non c’entra nulla, ovviamente. È che oggi la mia nonna mi ha chiesto come si applicassero quelle “decalcomanie”, comprate da lei a metà degli anni Settanta, in non so quale negozio di casalinghi.
Anzi, a pensarci meglio, so bene in quale negozio di casalinghi le ha comprate...


domenica 24 aprile 2011

RALLEGRÀTI

Pasqua è un passaggio.

Dalla morte alla vita.
Dal buio alla luce.
Dalla tristezza alla gioia.
Dalla mestizia alla letizia.
Dal nero al bianco.
Dal bianco al rosso.
Dall’odio all’amore.
Dall’indifferenza all’abbraccio.
Dalle lacrime al sorriso.
Dall’ansia alla calma.
Dall’illusione alla realtà.
Dall’inimicizia all’amicizia.
Dal brutto alla bellezza.
Dal male al bene.
Dal falso al vero.
Da ciò che non è all’unico Vivo, all’unica Luce, all’unica Gioia, all’unica Letizia, all’unico Bianco, all’unico Rosso, all’unico Amore, all’unico Abbraccio, all’unico Sorriso, all’unica Calma, all’unica Realtà, all’unica Amicizia, all’unica Bellezza, all’unico Bene, all’unica Verità.

C’è stato un suono in questo lungo giorno che ha scosso le mie orecchie. È stato il suono di una campana, suonata con tanto entusiasmo da alcuni bambini. All’inizio, un po’ stordito per il chiasso di quei rintocchi, non capivo perché tanta allegria nella semplicità di quel gesto, capace di generare ancora sorrisi, nonostante tutto il difficile che si respira in giro.
I più difficili (poveretti loro!) hanno la razionalità del cinismo dalla loro parte, l’intelligenza della disillusione, l’astuzia dei calcolatori, e si accontentano di terra invece di continuare a desiderare il Cielo.

Anche gli amici non si rendono conto di quello che è accaduto al loro Amico. Finché non rivivono situazioni a loro familiari: il loro nome chiamato, i gesti soliti di tutti i giorni, quelli a cui nessuno presta grande attenzione, quelli diventati abitudine.
L’abitudine non permette alcun passaggio, nessuna pasqua, nessuna risurrezione.
Ci si ferma al sepolcro, ci si ferma alla morte.
Per gli abituati Gesù non è mai risorto e mai potrà far risorgere nessuno.
Il mio bisogno di essere sollevato dalla terra, il mio desiderio di guardare e abitare quel cielo, l’emozione di uno sguardo che fissando chiama e chiede tutta la vita, la vita tutta intera, non mi fa mai abituare alla Pasqua, mai alla risurrezione, mai all’idea che l’ultima parola non è della morte (e nemmeno della vita!) ma sempre dell’amore. Non mi fa mai abituare al suono delle campane e dentro di me riesco ancora a sorridere, nonostante il grande chiasso che quei bambini hanno voluto fare.

Illuso? Ignorante? Sognatore? Ottuso? Ingenuo?
No, risorto.
Auguri!

venerdì 22 aprile 2011

LA PIETÀ


-Vi prego fate piano
A togliere quei chiodi,
Siano amorosi i gesti,
Siano gentili i modi,
Distrutta io l’aspetto
Ai piedi della croce
Per stringermelo al petto
Fargli un’ultima volta
Sentire la mia voce-.

E calano il suo corpo
Servendosi di scale:
-Fate piano, vi prego,
Non fategli del male! -;
Lo depongono a terra
Avvolto dentro a un telo,
La pioggia lava il sangue,
Sempre più scuro il cielo.

-Figlio mio, figlio mio!
Che cosa ti hanno fatto?
Io piango il tuo pallore,
Il tuo sangue scarlatto,
Che ancora intiepidisce
Le tue livide braccia,
Io piango il tuo bel viso,
Il piango la tua faccia.

Figlio mio, figlio mio,
Ma come t’han ridotto?
Ecco c’è qui tua madre
A piangerti qua sotto,
Io piango le tue spalle,
Io piango il tuo torace,
Come t’hanno ridotto
Io non so darmi pace.

Io rendo grazie al sole
Che per te si è oscurato,
Al cielo per quel suo
Spaventoso boato,
Alla terra divelta
In due dai terremoti,
Al vento che impetuoso
Rese i sepolcri vuoti.

Tu non vedrai mai più
Il sorgere del sole,
Io ricordo i tuoi giochi
Le tue prime parole,
Io piango le tue mani,
Io piango la tua guancia,
E ricordo di quando
Io ti tenevo in pancia.

Tu non vedrai mai più
La notte con le stelle,
Io piango i tuoi ginocchi
E le tue forme snelle;
Io piango il tuo respiro
Che ti è venuto meno,
E ricordo di quando
Io ti nutrivo al seno.

Non ti faran più ombra
I tralci della vita,
Io piango le tue labbra
Le tue braccia ferite,
E adesso che ti attende
La polvere del suolo
Ricordo la tua culla
E tuoi riccioli d’oro.

Non sentirai mai più
Il profumo dei fiori,
Io piango i tuoi begli occhi
Io piango i tuoi pallori,
E adesso che ti attende
La notte senza aurora
Ricordo i tuoi accenti,
La tua prima parola.

Tu non vedrai mai più
La luna dietro il monte,
Io piango i tuoi capelli
Io piango la tua fronte,
Ed ora che ti attende
La terra con i sassi
Ricordo il tuo girello
Ed i tuoi primi passi.

Tu non vedrai mai più
Le lucciole di notte,
Io piango il tuo bel corpo
Offeso dalle botte,
Ed ora che s’appressa
L’ultimo tuo tramonto,
Ti ricordo fanciullo
Che mi correvi incontro.

Tu non vedrai mai più
Il lago blu increspato,
Il piango le tue gambe
Il piango il tuo costato,
E adesso che ti attende
Il regno di Plutone
Rivedo te rincorrere
Nel vento il tuo aquilone.

Non sentirai mai più
Il vento tra gli ulivi,
Io piango il figlio mio
Che non è più tra i vivi,
E adesso che ti attende
Il buio sepolcrale
Ricordo le carezze
Per farti addormentare.

Per te vedrò ogni sera
Il sole giù calare,
Come vorrei di nuovo
Nel grembo te portare;
Io attenderò ogni notte
Per te la rosea aurora…,
Figlio, sei tu che io
Partorirei ancora - .



F. FIORISTA, I Vangeli in versi e in rima, Ancora 2002.

martedì 19 aprile 2011

FARE SPAZIO



In questi giorni c’è un prepararsi che toglie la voce. Per fare silenzio, per cantare, per pregare, perché le parole siano spese solo per quel mistero inspiegabile che è l’amore. Mistero che fa spesso soffrire, mistero che porta a morire d’amore. C’è chi dice che è possibile amare da morire, ma non morire d’amore. Io penso che sia impensabile amare alla follia, senza mettere in conto di morire, almeno un poco, dentro di noi, a noi stessi, senza lasciare che l’altro (qualunque “altro” sia) trovi spazio in noi.
Ma quanto è difficile!
Nei prossimi giorni si rivivranno eventi accaduti duemila anni fa, ricchi, densi, pieni di significato, di senso, di verità e di bellezza. Si passerà dall’intimità di una cena tra amici al dramma di un tradimento; dalla fuga di tutti alla scandalosa bellezza di una morte violenta.
E poi ancora silenzio, nell’attesa che si compia una promessa.
Fare spazio. Tanto spazio.

lunedì 18 aprile 2011

CON UN ALA IN PIÙ

Ho avuto ancora una volta la possibilità di esserci in un momento speciale della sua piccola vita.
Non so se ha capito il mio, il nostro essere accanto a lei in questo giorno così importante.
Forse nemmeno lei si è accorta dell’eccezionalità dell’evento e, con lei, anche gli altri cinque bimbi che ieri hanno ricevuto un regalo, un dono di incommensurabile valore, spesso dimenticato da qualche grande, come uno tra i tanti giocattoli, in fondo a uno scatolone nella cantina della nostra coscienza, che quando “si cresce” non serve più. Eppure, ieri pomeriggio, il dono del Battesimo è stato realmente vissuto e celebrato come un «regalo d’amore», il regalo più bello che Dio abbia potuto fare a questi bambini: quello di volerli amare a tutti i costi, anche a prezzo della sua stessa vita, come figli prediletti.
Il contesto "raccolto", la chiesa affrescata del Quattrocento, la simpatia e la semplice familiarità del parroco, l’emozione di giovani mamme e papà, l’esperienza più o meno collaudata di madrine e padrini, la curiosità di parenti e fotografi hanno contribuito alla nascita di un bel ricordo.
Un ricordo, appunto, qualcosa che nel tempo può essere ri-portato al cuore ed essere ri-vissuto.
Non come quel giocattolo dimenticato.
Ma come la possibilità di vivere una vita sempre nuova, sempre piena, sempre vera!

domenica 17 aprile 2011

CHE DIRE?

Non che sia molto difficile, al giorno d’oggi, rimanere senza parole; però di fronte a un Dio così, è facile restare a bocca aperta, con quelle quattro certezze che abbiamo scardinate dal suo agire, dal suo modo di parlare, di comportarsi, di comunicare alle folle. Lo abbiamo sentito parlare tante volte Gesù: racconti semplici, parabole, metafore, immagini. Tante immagini: pastori e pecorelle, pescatori e pesci da pescare, semi piantati, tesori ritrovati, re che partono per terre lontane…. Sembra quasi di stare dentro una favola. Infatti qualcuno, qualche tempo fa, deve averlo detto: «i cristiani credono nelle favole». Ma non so se è veramente così. Possiamo dire che Gesù è un cantastorie, un giullare, un inventa-favole? O che le sue parabole sono tutte fantasie inventate per tentare di spiegare un Dio inconoscibile? Provate voi a dare risposta. Sinceramente, in questa parte finale della Quaresima, mi basta (ancora una volta) guardare a Lui, in silenzio, per vedere ed ascoltare, quindi capire, quello che fa. Il lungo Vangelo di questa domenica è preceduto dal racconto del suo ingresso a Gerusalemme. Già oggi entrare a Gerusalemme suscita emozioni fortissime: quelle mura così ricche di storia, le sue vie, la sua gente, con i mille problemi dei suoi abitanti. Figurarsi a quel tempo, in cui tutto era al massimo del suo splendore, nonostante la dominazione romana!
In questa Domenica delle Palme, nella gioia tipica dei bimbi che cantano, mi piacerebbe notare due cose dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme: il mezzo di trasporto e la destinazione.
Il mezzo di trasporto. Che Gesù fosse un tipo fuori dagli schemi del tempo era evidente: guariva di sabato, non digiunava secondo i buoni costumi religiosi, riferiva ogni passo della Legge e dei Profeti alla sua persona e alla sua missione…. Era un tipo speciale e la gente, forse, si aspettava effetti speciali. Proprio come noi: da Gesù, che è il Figlio di Dio, ci aspettiamo effetti speciali. E come rimaniamo delusi, se non ci accontenta come vorremmo, se «non si fa sentire», se non si manifesta in maniera certa e incontrovertibile.
Delusi noi e delusi anche i suoi contemporanei! A noi è dato di incontrarlo in mille e più modi, tutti però non molto chiassosi: nella lettura e meditazione della sua Parola, nell’offerta della sua vita (tutta intera!) dell’Eucaristia, nelle parole e nella vita di chi annuncia il suo Vangelo, nel volto e nella sofferenza dei piccoli e dei poveri. Ai suoi amici gerosolimitani Gesù si è presentato su un’asina, sull’animale più umile e umiliato di tutti i tempi. L’animale che è diventato la metafora del lavoro pesante, del lavoro meccanico, delle persone poco intelligenti, delle persone imbrogliate, degli ingenui, dei «piccoli». Di quell’animale «il Signore ne ha bisogno». Di chi si sente sfruttato, umiliato, escluso, ferito, sofferente, imbrogliato, usato dai prepotenti di questo mondo: «il Signore ne ha bisogno»!
Chissà quante volte il Signore ha bisogno di «asini» come noi!?
La destinazione. Gerusalemme, la città santa. Città da sempre sognata, da ogni popolo e nazione, sempre contesa tra mille lotte e guerre, dal giorno della sua fondazione fino ai giorni nostri. Tutti gli anni, secondo l’usanza ebraica, era necessario recarsi al tempio, per la Pasqua, per la Pentecoste, per la festa delle Capanne. Quella Pasqua però si stava caricando di significati nuovi: l’ingresso sull’asina, i bambini che cantavano, la gente per strada che sventolava rami di palme e di ulivi gettando i mantelli per strada. Quell’uomo proveniente dalla Galilea aveva qualcosa di importante da fare. Sembrava un re! Ma questo non a tutti piaceva. Non piaceva ai capi del popolo, per paura di una vendetta da parte dei Romani, e non sarebbe piaciuto neppure ai Romani stessi. Tutti avevano paura di un possibile nuovo re. Anche noi ne avremmo. Avremmo paura di un re che ci imponesse le sue leggi, che ci impedisse di vivere come vogliamo, di non riconoscerlo come nostro sovrano, di poterlo criticare, di poterlo addirittura eliminare fisicamente…
Leggendo un po’ oltre questo brano di Matteo, con un po’ di curiosità e di anticipo rispetto ai giorni della settimana più autentica di tutto l’anno, si capisce che le nostre paure sarebbero infondate: la meta di questo «Re dei Giudei» sarà un trono di legno, fatto di assi e chiodi; gli onori a lui destinati saranno sputi, percosse e colpi di flagello; il suo potere sugli uomini sarà quello di insegnare ad amare (in modo vero) nella maniera più alta e bella che potesse mai mostrarci: donando la sua vita. Ecco cosa ci va a fare Gesù a Gerusalemme, per morire in croce, per insegnarci ad amare.
Ogni anno si ripete questo miracolo, il miracolo dell’amore insegnato attraverso l’esempio della vita donata. Ci serve ripeterlo ogni anno, come un memoriale, per non dimenticarci «come si fa» a dare la vita, «come si fa» ad amare sul serio, senza perderci in liquide definizioni che non trovano poi un pratico riscontro. Perché si sa: siamo preparati in molte cose, ma sulle cose importanti, spesso, siamo un po’ asinelli!

NoiBrugherio, sabato 16 aprile 2011

domenica 10 aprile 2011

«CREDI QUESTO?»



Se potessimo ascoltare alcuni dei colloqui che gli insegnanti hanno periodicamente con i genitori dei loro alunni, ci stupiremmo per quante volte viene ripetuta una frase, una specie di ritornello, che sembra andar bene per tanti: «Suo figlio è intelligente, ma non si applica!».
Al di là di ogni commento e valutazione scolastica, sembra che l’atteggiamento del «poter fare qualcosa», ma del «non volerlo fare» sia abbastanza diffuso non solo tra i più giovani, ma anche (e soprattutto) in molti adulti. Quello che una volta veniva indicato come il peccato capitale dell’accidia, oggi pare aggredire tantissima gente, nelle più diverse forme di pigrizia, di svogliatezza, di rimando e di disattenzione rispetto alle cose importanti da fare.
La pigrizia, oltre a uccidere il tempo libero che ci è dato da vivere al meglio, piano piano fa spegnere ogni nostra passione, ridimensiona ogni nostro progetto, riduce ai minimi termini i nostri sogni, cancella a uno a uno i nostri desideri. Insomma, ci fa «morire dentro».
Il tema della morte è il punto di partenza di questo episodio del Vangelo di Giovanni. Muore un uomo, Lazzaro. Muore un fratello, il fratello di Marta e Maria. Muore un amico, uno tra i migliori amici di Gesù. La narrazione di questa storia, però, ci fa meditare anche su un altro tipo di morte, quella del cuore.
Da sempre sede delle emozioni, dei desideri, dell’amore, il cuore è davvero l’organo indispensabile alla vita. Non sempre, tuttavia, la morte del cuore corrisponde alla morte del corpo. Il cuore può rallentare il suo battito (o addirittura arrestarsi) molto prima che il corpo trovi il suo «eterno riposo». Questo riposo, promessa alle tante fatiche della vita, se troppo anticipato può rischiare di non farci vivere per ciò che siamo fatti, ci impigrisce, ci lascia inoperosi, nonostante i nostri talenti, nonostante le nostre capacità, nonostante la nostra intelligenza, non applicata. E non solo a scuola. Per uscire da questo tunnel di svogliatezza e di non-vita, proviamo a guardare Gesù.
È veramente curioso il suo comportamento prima di compiere il miracolo sull’amico Lazzaro. Non si tira indietro, nemmeno sapendo che in Giudea c’era gente pronta a lapidarlo. Non solo! Le sue parole sembrano volerci dare uno scossone, per tutte quelle volte in cui mille scuse bloccano i nostri passi, le nostre migliori intenzioni, quando la pigrizia e l’accidia vogliono rallentare il bene che vorremmo fare, lasciando il nostro cuore addormentato, freddo. Proprio come il corpo di Lazzaro nel sepolcro: «Lazzaro, il nostro amico, s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo».
È questo che fa Gesù con la nostra vita un po’ addormentata: ci risveglia! Il testo originale greco usa lo stesso verbo per indicare il risveglio e la risurrezione: uno stesso verbo per indicare uno stesso costante bisogno per l’uomo, quello di alzarsi, di stare in piedi, svegli, di non rimanere nel sonno.
Ma davvero siamo tanto addormentati da sembrare morti? Abbiamo anche noi bisogno di essere svegliati? Sono solo le grandi tragedie della vita a far morire, poco per volta, il nostro cuore o sono anche tutte le volte in cui «risparmiamo» i nostri talenti e il nostro amore verso Dio e verso gli altri?
Sembrano tutte domande retoriche!
Certamente troppo spesso il nostro atteggiamento di cristiani, più che di credenti in una vita nuova e bella, sembra quello di gente scontenta, obbligata, appesantita. In una parola: abituata.
Possono, però, i discepoli del Risorto apparire come gente abituata o annoiata dalla loro vita? No!
Sicuramente tante volte viviamo sofferenze più grandi di noi. Succede ai piccoli, succede ai grandi: una delusione d’amore, l’incomprensione dei genitori, un tradimento, la perdita del lavoro, una separazione, una malattia, una morte. Da dove trovare la forza e la speranza per andare avanti?
Troppo spesso ci capita di dimenticare la concretezza della carità (che è l’amore che Gesù ci ha insegnato) che è un sorriso a chi ci incontra, un saluto ai nostri colleghi, l’interessamento per la vita degli altri.
Riusciamo a venire fuori da tutti questi problemi da soli? No di certo. Anche la reale sofferenza di Marta e Maria non è stata consolata soltanto dalla pur preziosa vicinanza dei Giudei giunti a casa loro, ma ha avuto bisogno della presenza di Gesù, tanto cercata: «Signore, se tu fossi stato qui…».
Ad un certo punto per loro due è stato necessario cercare Gesù, averlo lì con loro, presente nella loro vita, per ascoltarlo, per consegnare a Lui in una confidenza tra amici il loro dolore, perché sapevano che era l’unico in grado di poter fare qualcosa di grande per loro e per la vita, ormai persa, di Lazzaro.
Per svegliare dal sonno di una morte che uccide il cuore prima del corpo, occorre cercare Gesù e riconoscere che Lui solo può mettere le cose a posto. Non perché faccia grandi miracoli, come in quel giorno davanti al sepolcro dell’amico, ma perché solo da Lui, nella sua Parola e nel suo Corpo donato per amore, possiamo ricevere la vita, la vita vera: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?».

NoiBrugherio, sabato 09 aprile 2011

venerdì 8 aprile 2011

È PIÙ FACILE AL BAR

Non è una cronaca. Non è nemmeno un commento. O un articolo di giornale.
Sono più che altro pensieri sparsi che ho da alcuni giorni sulla vicenda e che vorrei fissare.
Questa, la vicenda, oramai la conoscono quasi tutti, perché è stata parecchio pubblicizzata, con tanta enfasi e, forse, con un tono leggermente inconsapevole.
Per farla breve: un numero imprecisato di ragazzi (il minimalista dice “dieci”, il massimalista dice “più di quaranta”, il sobrio dice “trentotto”) un po’ (troppo) vivaci, che “conquistano” un postic-ino tutto per loro, un oratorio, con i loro modi, con i loro tempi, per i loro comod-ini. Nulla di grave. Qualcuno direbbe “una ragazzata”. La ragazzata, però, è andata avanti un po’ troppo e si sa, a furia di tirar la corda, dopo un po’ si spezza. E si è spezzata, per fortuna.
Dico per fortuna con il celeberrimo senno di poi. Dico per fortuna perché “grazie” a loro un po’ di grandi si sono seduti (chi su una sedia, chi per terra, chi su un calorifero spento…) e si sono ascoltati.
Si sono ascoltati!
Non hanno acceso la tv, non si sono connessi ad Internet. Si sono infilati tutti in una sala nontantograndesenzariacondizionata e si sono parlati. Qualcuno era sull’arrabbiatello andante. Qualcuno era deluso. Molti erano curiosi, ma di una curiosità sana, quella che fa crescere pure i bamb-ini. Ora che ci penso più che curiosità, ieri sera, negli occhi e nell’attenzione, si vedeva meraviglia; e se la meraviglia, come dice il buon vecchio Aristotele, è la premessa alla conoscenza, allora posso ben dire che i grandi di ieri sera sono tornati a casa ben più istruiti di quando sono arrivati all’auditorium, più cresciuti, più “grandi”.
Due preti, due preti-preti, hanno parlato della loro vita. Uno da Scampia, l’altro dal Beccaria. Non hanno dato risposte o proposto soluzioni. Hanno solo parlato di vita. Anzi: hanno parlato della vita dei loro ragazzi. E questo ha colpito e messo d’accordo tutti, chiudicancellisti e apricancellisti, perché il problema non sta in quel benedetto cancello, che nella mente e nel cuore di tutti (anche di chi ha deciso, soffrendo, di chiuderlo) è sempre rimasto aperto.
Il cancello più difficile da aprire rimane sempre quello del cuore. Non è una tipica frase da cioccolat-ino umbro, ma una verità. Un cuore con il cancello chiuso non si accorge di niente. Non si accorge dei segreti, non si accorge degli imbrogli, non si accorge delle furbate. Non si accorge dei bisogni non detti e delle ferite nascoste. Non si accorge del bene e nemmeno del male, se non quando questo male fa rumore, al tg o sul corsera. Abituati come siamo a dar ragione solo al fracasso, ciò che abita il silenzio è per noi inesistente. E così non importa se tra i “piccoli” e i “grandi” cala il silenzio, se i “piccoli” non sono più capaci di raccontare qualcosa di sé ai loro “grandi”, se la comunicazione è sbrigativamente ridotta al “Ciao. Tutto bene. Ciao”. Non possiamo più accontentarci di queste semplificazioni. Occorre avere un coraggio nuovo: il coraggio di dire “no, così non va”. Ma occorre farlo seriamente.
Il no più grande è da dire ai “grandi” che non vogliono far crescere questi ragazzi. Il no più grande va detto a chi li vuole riempire di cose, di marche, di parolacce (perché le parolacce i piccoli le imparano dai grandi!), di illusioni che fanno aver paura dei grandi sogni, di corpi usati per far denaro, di successo troppo facile e senza fatica, di noia verso le cose belle, buone e vere. Il no più grande va detto a certa televisione. Il no più grande va detto ai troppi pessimisti-politicamente-corretti che pensano ai sognatori come a dei poveretti.
I poveretti son loro. Ma anche a questi dobbiamo voler bene.

È vero: forse “non riusciamo ad educare tutti”.
Ma sicuramente, con qualche dritta, tutti li possiamo amare.



QUOTATION: "Nel massacro odierno di identità aiuto i ragazzi ad essere se stessi", Alessandro, insegnante (vero).

sabato 2 aprile 2011

«SIAMO CIECHI ANCHE NOI?»


Una cosa interessante che si nota leggendo questo famoso brano del Vangelo di Giovanni sono le azioni più ricorrenti compiute dai personaggi della narrazione. Fondamentalmente sono due: vedere, nel senso di recuperare la vista, di notare le cose che succedono, di comprendere ciò che si vive; ascoltare, soprattutto le tante domande fatte e le parole dette.
Gesù vede un uomo cieco dalla nascita, che quindi non ha mai visto nulla di ciò che esiste nella realtà, e gli dice di andare a lavarsi alla piscina di Siloe. Quelli che avevano visto per anni quell’uomo, seduto per terra, sul bordo della strada «perché era un mendicante», dicono parole di stupore, non si spiegano come sia potuto accadere quel miracolo. Alcuni dicono «è lui», altri «no, ma gli assomiglia». Il cieco nato, non così esperto nell’arte dell’osservare le cose del mondo, non esita a dire «sono io!».
Sembra quasi che ci sia dell’incertezza in chi è sempre stato abituato a vedere e una grande sicurezza in chi ha appena incominciato a farlo, fidandosi di una parola detta. Come se i primi, a poco a poco, stessero perdendo la vista, mentre il secondo ha effettivamente incominciato a vedere solo dopo aver incontrato e ascoltato il Signore.
Gesù alla fine del brano lo dice chiaramente: «Io sono venuto nel mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi».
Come è possibile? È vero che Gesù vuole renderci ciechi? È vero che il Figlio dell’uomo, apparso in tutta la sua bellezza sul monte Tabor, vuole confondere le nostre poche certezze e renderci in questo modo un po’ più fragili? Può il Figlio di Dio, venuto come Salvatore, renderci schiavi delle tenebre dell’ignoranza?
Forse questo tipo di domande ci allontana un poco dalla verità. Il miracolo fatto da Gesù sugli occhi di quest’uomo non gli ha permesso soltanto di vedere, ma anche di cambiare coraggiosamente vita. È questo il vero miracolo per lui e per noi: la possibilità di cambiare la vita, di convertirsi, di riscattarsi da una condizione che non rende vera l’esistenza.
Al tempo di Gesù i ciechi potevano soltanto mendicare, cioè dipendere in tutto e per tutto dagli altri, essere in qualche modo schiavi della generosità altrui. Nessuno poteva costruirsi da solo il suo futuro.
Dopo quel gesto del fango, quell’uomo con occhi nuovi donati da Gesù, ha il coraggio di vivere veramente, di rispondere alle provocazioni che gli vengono lanciate. Ha la forza di affrontare i dubbi della sua fede, riesce a non fermarsi di fronte a ciò che non lo faceva vivere. La luce portata nella vita di quest’uomo è la sua fede in Gesù.
Nel cammino quaresimale che stiamo vivendo, sono molti i segni che ci dicono la possibilità di un’altra vita a partire dall’incontro con Cristo. Il digiuno, vissuto da Gesù nel deserto, ci ha fatto capire il bisogno, di tanto in tanto, di fare i conti con quanto abbiamo dentro e fuori di noi, di rinunciare un poco alle nostre certezze e di confrontarci sempre con l’unico alimento capace di tenerci in vita, la sua Parola; il volto e il vestito luminoso nella Trasfigurazione ci hanno mostrato una luce capace di destare stupore e meraviglia, per svegliarci dal sonno dell’abitudine, che rende stanco il nostro vivere; l’incontro con la Samaritana al pozzo ci ha parlato del bisogno di un’acqua viva che disseti una volta per tutte la nostra sete di verità e di felicità. Anche con questo brano ci è dato di sperare: sembra proprio che Gesù porti solo cose buone, cose belle, cose vere nella vita di chi lo accoglie. Eppure, oggi come allora, le resistenze sono tante, non solo in chi non riesce o non vuole credere, ma anche in noi cristiani.
Le resistenze alla Buona Notizia del Vangelo sono ben rappresentate dall’atteggiamento dei Farisei: ci sono sempre cose più importanti da fare, da ascoltare, da seguire, siano esse regole, leggi, impressioni, lavori, impegni. Tutto sembra sempre più importante di Dio e si sa, quando le cose importanti incominciano a perdere il loro valore, tutto appare più difficile, a volte impossibile. Impossibile come il fatto che un cieco nato possa recuperare la vista per mano di un Rabbì che guarisce di sabato, contravvenendo alla legge mosaica.
Anche di fronte alla più grande evidenza, l’incredulità ha sempre la meglio e i dubbi, le domande, le incertezze, a lungo andare, sono i passi che conducono ad avere un cuore freddo, poco abituato ad amare, e degli occhi privi di luce, incapaci di sperare. Ecco la vera cecità: quella di un cuore freddo che piano piano smette di battere. A chi non vuole più amare, Gesù prevede un futuro di ciecità. Ma a chi sa affidarsi alla sua cura, chi sa che la sua Parola guarisce davvero la vita, il Signore è in grado di aprire gli occhi, di riempirli della sua luce, di donare davvero quella gioia che vale tutto. Il cammino verso Gerusalemme e la Pasqua continua. A noi la scelta di continuare ad ascoltare o meno la Parola che salva e quella domanda, a mo’ di esame di coscienza: forse «siamo ciechi anche noi?».


NoiBrugherio, sabato 02 aprile 2011