mercoledì 10 agosto 2011

LE STELLE IN CIELO ovvero IL BISOGNO DI CONTINUARE A DESIDERARE



Per molti il grande desiderio di questa sera è riuscire a vedere almeno una “stella” cadente. Perché le persone continuano a desiderare e, nonostante la loro più o meno affermata incredulità, continuano ad aver bisogno del Cielo e a sperare che da quel Cielo arrivi qualcosa di buono.
Oltre ventotto secoli fa, un uomo di nome Isaia, scriveva su un rotolo di pergamena:

Così dice il Signore Dio che ti ha creato:
«Non temere, perché io ti ho riscattato,
ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni.
Se dovrai attraversare le acque, sarò con te,
i fiumi non ti sommergeranno;
se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai,
la fiamma non ti potrà bruciare,
poiché io sono il Signore, tuo Dio, il Santo d’Israele, il tuo salvatore.
Io do l’Egitto come prezzo per il tuo riscatto, l’Etiopia e Seba al tuo posto.
Perché tu sei prezioso ai miei occhi,
perché sei degno di stima e io ti amo,
do uomini al tuo posto e nazioni in cambio della tua vita.
Non temere, perché io sono con te

Quest’uomo di mestiere faceva il profeta. Non uno di quei sedicenti indovini e preannunciatori di futuro. Non guardava il cielo per sapere cosa sarebbe successo. Isaia non era un astrologo e il cielo, invece di guardarlo con gli occhi, lo ascoltava il cuore.
È il cuore la bocca capace di esprimere i desideri più veri e profondi; è il cuore l’orecchio in grado di ascoltare quella parola di bene che Dio ha per ognuno dei suoi figli. Ognuno. Tutti. Nessuno escluso. Nemmeno chi teme di essere escluso dalla sua bontà: Lui ci chiama per nome. Nemmeno chi teme la schiavitù dell’abitudine, della noia, dell’infelicità, dell’insoddisfazione, del “male di vivere”, che pare essere piaga ben più severa di quelle egizie. Nemmeno chi vive nell’ombra più oscura, nell’abisso più profondo può disperare di sentirsi dire: “Tu sei prezioso ai miei occhi! Così prezioso da avere per te tutto un universo di stelle, un’infinita possibilità di desideri”.
C’è chi desidera ascoltare parole come queste. C’è chi ha bisogno di ascoltare parole come queste, semplicemente per ricordarsi d’essere prezioso, importante.
Se non per molti, comunque per Dio!

Leggendo le parole di molti questa sera, mi sembra di vedere non tanto il bisogno di qualcosa, di un desiderio preciso e coltivato, piuttosto il bisogno stesso di desiderare, come se il cuore, quell’orecchio e bocca benedetti, non fosse più capace di farlo, impaurito o paralizzato da non si sa quali motivazioni. Non più capace di ascoltare le parole che vengono dal cielo. Non più bisognoso di parlare a quel cielo con fiducia e speranza.
Mi ricordo allora di un racconto, ascoltato per la prima volta lungo una strada, da un’attrice che recitava per un gruppo di giovani.
È la storia di Stefano e della sua vita. La riporto per intera, perché merita di essere letta, magari prima di uscire in questa notte così limpida a guardare questo cielo, ancora capace di parlare e di farsi ascoltare per il semplice nostro bene.


Quando Stefano Roi compì i dodici anni, chiese in regalo a suo padre, capitano di mare e padrone di un bel veliero, che lo portasse con sé a bordo.
«Quando sarò grande» disse «voglio andar per mare come te. E comanderò delle navi ancora più belle e grandi della tua».
«Che Dio ti benedica, figliolo» rispose il padre. E siccome proprio quel giorno il suo bastimento doveva partire, portò il ragazzo con sé.
Era una giornata splendida di sole; e il mare tranquillo. Stefano, che non era mai stato sulla nave, girava felice in coperta, ammirando le complicate manovre delle vele. E chiedeva di questo e di quello ai marinai che, sorridendo, gli davano tutte le spiegazioni. Come fu giunto a poppa, il ragazzo si fermò, incuriosito, a osservare una cosa che spuntava a intermittenza in superficie, a distanza di due-trecento metri, in corrispondenza della scia della nave. Benché il bastimento già volasse, portato da un magnifico vento al giardinetto, quella cosa manteneva sempre la distanza. E, sebbene egli non ne comprendesse la natura, aveva qualcosa di indefinibile, che lo attraeva intensamente. Il padre, non vedendo Stefano più in giro, dopo averlo chiamato a gran voce invano, scese dalla plancia e andò a cercarlo.
«Stefano, che cosa fai lì impalato?» gli chiese scorgendolo infine a poppa, in piedi, che fissava le onde.
«Papà, vieni qui a vedere».
Il padre venne e guardò anche lui, nella direzione indicata dal ragazzo, ma non riuscì a vedere niente.
«C'è una cosa scura che spunta ogni tanto dalla scia» disse «e che ci viene dietro».
«Nonostante i miei quarant'anni» disse il padre «credo di avere ancora una vista buona. Ma non vedo assolutamente niente».
Poiché il figlio insisteva, andò a prendere il cannocchiale e scrutò la superficie del mare, in corrispondenza della scia. Stefano lo vide impallidire.
«Cos'è? Perché fai quella faccia?»
«Oh, non ti avessi ascoltato» esclamò il capitano. «Io adesso temo per te. Quella cosa che tu vedi spuntare dalle acque e che ci segue, non è una cosa. Quello è un colombre. È il pesce che i marinai sopra tutti temono, in ogni mare del mondo. È uno squalo tremendo e misterioso, più astuto dell'uomo. Per motivi che forse nessuno saprà mai, sceglie la sua vittima, e quando l'ha scelta la insegue per anni e anni, per una intera vita, finché è riuscito a divorarla. E lo strano è questo: che nessuno riesce a scorgerlo se non la vittima stessa e le persone del suo stesso sangue»
«Non è una favola?»
«No. Io non l'avevo mai visto. Ma dalle descrizioni che ho sentito fare tante volte, l'ho subito riconosciuto. Quel muso da bisonte, quella bocca che continuamente si apre e chiude, quei denti terribili. Stefano, non c'è dubbio, purtroppo, il colombre ha scelto te e finché tu andrai per mare non ti darà pace. Ascoltami: ora noi torniamo subito a terra, tu sbarcherai e non ti staccherai mai più dalla riva, per nessuna ragione al mondo. Me lo devi promettere. Il mestiere del mare non è per te, figliolo. Devi rassegnarti. Del resto, anche a terra potrai fare fortuna».
Ciò detto, fece immediatamente invertire la rotta, rientrò in porto e, col pretesto di un improvviso malessere, sbarcò il figliolo. Quindi ripartì senza di lui. Profondamente turbato, il ragazzo restò sulla riva finché l'ultimo picco dell'alberatura sprofondò dietro l'orizzonte. Di là dal molo che chiudeva il porto, il mare restò completamente deserto. Ma, aguzzando gli sguardi, Stefano riuscì a scorgere un puntino nero che affiorava a intermittenza dalle acque: il "suo" colombre, che incrociava lentamente su e giù, ostinato ad aspettarlo.
Da allora il ragazzo con ogni espediente fu distolto dal desiderio del mare. Il padre lo mandò a studiare in una città dell'interno, lontana centinaia di chilometri. E per qualche tempo, distratto dal nuovo ambiente, Stefano non pensò più al mostro marino. Tuttavia, per le vacanze estive, tornò a casa e per prima cosa, appena ebbe un minuto libero, si affrettò a raggiungere l'estremità del molo, per una specie di controllo, benché in fondo lo ritenesse superfluo. Dopo tanto tempo, il colombre, ammesso anche che tutta la storia narratagli dal padre fosse vera, aveva certo rinunciato all'assedio. Ma Stefano rimase là, attonito, col cuore che gli batteva. A distanza di due-trecento metri dal molo, nell'aperto mare, il sinistro pesce andava su e giú, lentamente, ogni
tanto sollevando il muso dall'acqua e volgendolo a terra, quasi con ansia guardasse se Stefano Roi finalmente veniva. Così, l'idea di quella creatura nemica che lo aspettava giorno e notte divenne per Stefano una segreta ossessione. E anche nella lontana città gli capitava di svegliarsi in piena notte con inquietudine. Egli era al sicuro, sì, centinaia di chilometri lo separavano dal colombre. Eppure egli sapeva che, di là dalle montagne, di là dai boschi, di là dalle pianure, lo squalo era ad aspettarlo. E, si fosse egli trasferito pure nel più remoto continente, ancora il colombre si sarebbe appostato nello specchio di mare più vicino, con l'inesorabile ostinazione che hanno gli strumenti del fato.
Stefano, ch'era un ragazzo serio e volonteroso, continuò con profitto gli studi e, appena fu uomo, trovò un impiego dignitoso e rimunerativo in un emporio di quella città. Intanto il padre venne a morire per malattia, il suo magnifico veliero fu dalla vedova venduto e il figlio si trovò ad essere erede di una discreta fortuna. Il lavoro, le amicizie, gli svaghi, i primi amori: Stefano si era ormai fatto la sua vita, ciononostante il pensiero del colombre lo assillava come un funesto e insieme affascinante miraggio; e, passando i giorni, anziché svanire, sembrava farsi più insistente.
Grandi sono le soddisfazioni di una vita laboriosa, agiata e tranquilla, ma ancora più grande è l'attrazione dell'abisso. Aveva appena ventidue anni Stefano, quando, salutati gli amici della città e licenziatosi dall'impiego, tornò alla città natale e comunicò alla mamma la ferma intenzione di seguire il mestiere paterno. La donna, a cui Stefano non aveva mai fatto parola del misterioso squalo, accolse con gioia la sua decisione. L'avere il figlio abbandonato il mare per la città le era sempre sembrato, in cuor suo, un tradimento alle tradizioni di famiglia. E Stefano cominciò a navigare, dando prova di qualità marinare, di resistenza alle fatiche, di animo intrepido. Navigava, navigava, e sulla scia del suo bastimento, di giorno e di notte, con la bonaccia e con la tempesta, arrancava il colombre. Egli sapeva che quella era la sua maledizione e la sua condanna, ma proprio per questo, forse, non trovava la forza di staccarsene. E nessuno a bordo scorgeva il mostro, tranne lui.
«Non vedete niente da quella parte?» chiedeva di quando in quando ai compagni, indicando la scia.
«No, noi non vediamo proprio niente. Perché?»
«Non so. Mi pareva...»
«Non avrai mica visto per caso un colombre» facevano quelli, ridendo e toccando ferro.
«Perché ridete? Perché toccate ferro? »
«Perché il colombre è una bestia che non perdona. E se si mettesse a seguire questa nave, vorrebbe dire che uno di noi è perduto».
Ma Stefano non mollava. La ininterrotta minaccia che lo incalzava pareva anzi moltiplicare la sua volontà, la sua passione per il mare, il suo ardimento nelle ore di lotta e di pericolo.
Con la piccola sostanza lasciatagli dal padre, come egli si sentì padrone del mestiere, acquistò con un socio un piccolo piroscafo da carico, quindi ne divenne il solo proprietario e, grazie a una serie di fortunate spedizioni, poté in seguito acquistare un mercantile sul serio, avviandosi a traguardi sempre più ambiziosi. Ma i successi, e i milioni, non servivano a togliergli dall'animo quel continuo assillo; né mai, d'altra parte, egli fu tentato di vendere la nave e di ritirarsi a terra per intraprendere diverse imprese. Navigare, navigare, era il suo unico pensiero. Non appena, dopo lunghi tragitti, metteva piede a terra in qualche porto, subito lo pungeva l'impazienza di ripartire. Sapeva che fuori c'era il colombre ad aspettarlo, e che il colombre era sinonimo di rovina. Niente.
Un indomabile impulso lo traeva senza requie, da un oceano all'altro. Finché, all'improvviso, Stefano un giorno si accorse di essere diventato vecchio, vecchissimo; e nessuno intorno a lui sapeva spiegarsi perché, ricco com’era, non lasciasse finalmente la dannata vita del mare. Vecchio, e amaramente infelice, perché l’intera esistenza sua era stata spesa in quella specie di pazzesca fuga attraverso i mari, per sfuggire al nemico. Ma più grande che le gioie di una vita agiata e tranquilla era stata per lui sempre la tentazione dell'abisso.
E una sera, mentre la sua magnifica nave era ancorata al largo del porto dove era nato, si sentì prossimo a morire. Allora chiamò il secondo ufficiale, di cui aveva grande fiducia, e gli ingiunse di non opporsi a ciò che egli stava per fare. L'altro, sull'onore, promise. Avuta questa assicurazione, Stefano, al secondo ufficiale che lo ascoltava sgomento, rivelò la storia del colombre, che aveva continuato a inseguirlo per quasi cinquant'anni, inutilmente.
«Mi ha scortato da un capo all'altro del mondo» disse «con una fedeltà che neppure il più nobile amico avrebbe potuto dimostrare. Adesso io sto per morire. Anche lui, ormai, sarà terribilmente vecchio e stanco. Non posso tradirlo».
Ciò detto, prese commiato, fece calare in mare un barchino e vi sali, dopo essersi fatto dare un arpione.
«Ora gli vado incontro» annunciò. «È giusto che non lo deluda. Ma lotterò, con le mie ultime forze».
A stanchi colpi di remi, si allontanò da bordo. Ufficiali e marinai lo videro scomparire laggiù, sul placido mare, avvolto dalle ombre della notte. C'era in cielo una falce di luna. Non dovette faticare molto. All'improvviso il muso orribile del colombre emerse di fianco alla barca.
«Eccomi a te, finalmente » disse Stefano. «Adesso, a noi due!»
E, raccogliendo le superstiti energie, alzò l'arpione per colpire.
«Uh» mugolò con voce supplichevole il colombre «che lunga strada per trovarti. Anch'io sono distrutto dalla fatica. Quanto mi hai fatto nuotare. E tu fuggivi, fuggivi. E non hai mai capito niente».
«Perché?» fece Stefano, punto sul vivo.
«Perché non ti ho inseguito attraverso il mondo per divorarti, come pensavi. Dal re del mare avevo avuto soltanto l'incarico di consegnarti questo».
E lo squalo trasse fuori la lingua, porgendo al vecchio capitano una piccola sfera fosforescente. Stefano la prese fra le dita e guardò. Era una perla di grandezza spropositata. E lui riconobbe la famosa Perla del Mare che dà, a chi la possiede, fortuna, potenza, amore, e pace dell'animo. Ma era ormai troppo tardi.
«Ahimè!» disse scuotendo tristemente il capo.
«Come è tutto sbagliato. Io sono riuscito a dannare la mia esistenza: e ho rovinato la tua».
«Addio, pover'uomo» rispose il colombre. E sprofondò nelle acque nere per sempre.

Due mesi dopo, spinto dalla risacca, un barchino approdò a una dirupata scogliera. Fu avvistato da alcuni pescatori che, incuriositi, si avvicinarono. Sul barchino, ancora seduto, stava un bianco scheletro: e fra le ossicine delle dita stringeva un piccolo sasso rotondo.

Il colombre è un pesce di grandi dimensioni, spaventoso a vedersi, estremamente raro.
A seconda dei mari, e delle genti che ne abitano le rive, viene anche chiamato kolomber, kahloubrha, kalonga, kalu-balu, chalung-gra. I naturalisti stranamente lo ignorano.
Qualcuno perfino sostiene che non esiste.

Il colombre, da Il colombre di Dino Buzzati


lunedì 1 agosto 2011

IL SOLE DENTRO, ovvero IL PIÙ GRANDE SPETTACOLO DOPO IL BIG BANG

Oggi analisi del testo. Alla mia maniera.
Titolo:

"Il più grande spettacolo dopo il big bang




Il bello degli esseri umani è la loro capacità di amare e di lasciarsi amare.
Il brutto degli esseri umani è quando non fanno l’uno e non permettono l’altro.
La fortuna degli esseri umani è quella di poter “fare”, nel senso di vivere, sperimentare, donare, far sentire amore a bassissimo costo. Praticamente gratis!
Per amare, ce lo insegna il buon Dio, bisogna sempre essere in tre, perché i soggetti dell’amare

siamo noi, io e te!

Sì: noi, io e te. Io che scrivo e tu che leggi e noi insieme. Tu che leggi e la tua fidanzata e voi insieme. Tuo fratello e il suo migliore amico e loro insieme. Il migliore amico di tuo fratello e la sua mamma e loro due insieme. Et cetera, et cetera… e loro insieme.
La ricchezza dell’uomo è che può passare la sua vita ad amare.
La sua povertà è tutte le volte in cui si astiene dal farlo. Non serve essere pronti per amare, non bisogna studiarlo da qualche parte. Occorre solo cominciare. Un po’ come quando uno prende in mano

la chitarra senza saper suonare”.

Il caro Lorenzo penso sia in grado di esprimere bene questo pensiero che mi porto dentro da molto tempo. La fortuna dell’uomo è che ha un solo cuore per amare. Penso sia uno dei pochi casi in cui una sola unità vuol dire ricchezza.
Per capirlo va provato. Per provarlo va vissuto. Per viverlo bisogna “starci dentro”, dalla testa ai piedi, inzuppati fradici. Anche le lacrime fanno bene, se occorrono. Voler bene fino alle lacrime. Piangere perché si è sentito il bene, il bello, il vero. Emozionarsi perché si è toccata la gioia. Proprio come a Natale, quando chi riesce ancora a sognare si emoziona davanti al bene che tenta di farsi strada in un mondo di buio e di maschere, che tenta di nascere in ogni vita, più o meno complicata, più o meno felice.
Chi non si lascia toccare dalla gioia, a Natale come in estate, non riesce a toccarla.
E allora da qui nasce l’invidia, la nostalgia, l’incredulità, lo scoraggiamento, la lamentela, la rabbia, l’irragionevolezza di pensieri, parole e azioni, che non fanno il bene di nessuno. Da qui nascono anche i vizi, quelli che si istituiscono al rispondere sempre “” al capriccio di un bambino, l’inizio della sua rovina. Chi non tocca la gioia non vuole che altri stiano nella gioia. E che fanno? Mormorano. Ma chi riesce a toccarla non si ferma davanti a niente.
Altro che..

..musica, altro che il Colosseo,
altro che America, altro che l'exstasi,
altro che nevica, altro che Rolling Stones,
altro che football...
altro che Lady Gaga, altro che oceani,
altro che argento e oro, altro che il sabato,
altro che le astronavi, altro che la tv,
altro che chiacchiere..”.

Si, chiacchiere. Solo chiacchiere. Il miracolo al quale abbiamo assistito è stato piccolo, perché i miracoli veri della vita di tutti son quelli senza visioni. Son quelli che ti permettono di dire: “il caso non esiste”, ma esiste una mano forte e buona che ti tiene in piedi, che ti rialza quando cadi; una mano un po’ ruvida dagli anni, che ti insegna, se non sei ancora capace, ad allacciarti le scarpe e a schioccare le dita. Il miracolo (senza esagerare) è quello di vedere ragazzi che pongono fine, ancor prima dei grandi, alla “guerra dei bottoni” così ancora diffusa in tutto il mondo, ad ogni latitudine.
Il più grande spettacolo dopo il big bang è vedere ragazzi, che molti giudicano superficiali, piangere dalla gioia. Nessuno parlava attorno al falò dell’altra sera. Eppure si era in centoquaranta. Ognuno teneva per mano almeno due persone. Così si era ancora una volta in tre. Numero perfetto, perché aperto all’altro. Aperto come un abbraccio, che non chiude per possedere, ma si apre per donare con gioia.
Cito I., educatrice ventenne:
"L'ultima sera chiedo a un ragazzo in lacrime ‘Perché piangi?’ ‘Sono triste perché il campeggio finisce!’ ‘Ma perché ti è piaciuto così tanto?’ ‘Per i volti nuovi, perché era UNITO’, ‘...ma anche se stai piangendo perché è finito, adesso sei più triste o felice?’, ‘FELICE!!!’"

Io e te...
che ci abbracciamo forte,
io e te, io e te...
che ci sbattiamo porte,
io e te, io e te...
che andiamo contro vento,
io e te, io e te...
che stiamo in movimento,
io e te, io e te...
che abbiamo fatto un sogno
che volavamo insieme,
che abbiamo fatto tutto
e tutto c'è da fare,
che siamo ancora in piedi
in mezzo a questa strada,
io e te, io e te, io e te!
[…]
che abbiamo fatto a pugni,
io e te, io e te...
fino a volersi bene,
io e te, io e te...
che andiamo alla deriva,
io e te, io e te...
nella corrente....io e te!
Che attraversiamo il fuoco
con un ghiacciolo in mano,
che siamo due puntini,
ma visti da lontano,
che ci aspettiamo il meglio
come ogni primavera,
io e te, io e te, io e te!

Il più grande spettacolo dopo il big bang
Il più grande spettacolo dopo il big bang
Il più grande spettacolo dopo il big bang siamo noi...io e te!


In questi giorni penso di aver capito un po’ di più da dove arriva la paura dell’altro, del diverso. Da dove proviene quella gelida diffidenza che fa sospettare di un altro uomo, che fa avere paura di uno che, a conti fatti, è come noi, io e te.
Il più grande spettacolo dopo il big bang è l’amore.

A chi c’era, a chi non c’era.
A tutti, ai piccoli e ai grandi GuerrieriDragone.
Grazie.





Ho preso la chitarra senza saper suonare,
è bello vivere anche se si sta male,
volevo dirtelo perché ce l'ho nel cuore,
son sicurissimo...amore!


Lorenzo Cherubini, Il più grande spettacolo dopo il big bang.