venerdì 24 febbraio 2012

BLU BLU



Sarà il ricordo prossimo nella mente delle belle cose romane: 
cose piene di storia, di luce, di bellezza, di fede. 
Sarà la fine del freddo, che ad un tratto ci ha presi un po' tutti alla sprovvista, 
distratti dalla mitezza di un inverno anomalo, 
abituati a temperature non troppo rigide, e il transito verso la primavera. 
Sarà quel che sarà. 
Il cielo di oggi parlava di bellezza. 
Almeno qui dove lo potevo vedere io: 
non più a Roma, 
non più nell'abitudine delle cose tiepide, 
ma nella concretezza della realtà, 
che dalla sveglia di oggi (erroneamente fatta suonare mezz'ora prima del previsto), 
ha fatto sentire la sua voce un po' scomoda, ma comunque amica. 
Il cielo lo posso fotografare al tramonto o all'alba, in vacanza o in luoghi eccezionali. 
Ma quando voglio che mi parli di se stesso, cioè di Cielo, 
lo posso apprezzare nella sua interezza, nel suo colore che lascia stupiti, 
solo quando sto al mio posto, 
laddove l'Amore che tutto muove mi ha voluto e mi vuole ancora. 
Per questo oggi ringrazio il Cielo: 
per aver visitato la Città che centra spazio e tempo; 
per aver goduto di tanta Bellezza e Luce; 
per essere tornato alla vita che mi fa vivere; 
per essermi stupito del suo azzurro che sa di amicizia. 

Emozionante nostalgia di Cielo. 


mercoledì 15 febbraio 2012

BASTA POCO CHE CE VO'?

Ho invitato quest'uomo a parlare ai ragazzi che il Cielo mi ha affidato, martedì scorso. Un'ora prima di quella serata ho mangiato con lui un trancio di pizza, chiacchierando delle cose del mondo. Cose che tutti sanno, ma che a nessuno fa comodo cambiare. Meglio: cose che scomodano. E quindi rimangono così. L'incontro è andato bene. Tutti colpiti dalle sue parole. Eravamo un centinaio. 
Poi, ieri pomeriggio, ho trovato un articolo che mi ha spiegato cosa c'è stato nel passato di quest'uomo. 
Non ci avevo pensato più di tanto durante il nostro chiacchierare.

Sapevo che era in carcere da quasi quarant'anni e che in quel momento si trovava da me con un permesso speciale. Mi sono fidato e ho voluto fare incontrare i miei ragazzi con lui. Per fortuna!

Andraous, 4 omicidi: " vivo tra mille rimorsi, ma la poesia mi ha cambiato " trascorrera' la Pasqua a Cavalcaselle (Verona) in licenza premio, in compagnia della mamma e della figlia 

CAVALCASELLE (Verona) . A Francis Turatello, "Faccia d' angelo", boss della mala milanese che era rinchiuso nel penitenziario di Bad' e Carros a Nuoro, squarciarono il petto, strapparono gli intestini e addentarono il cuore. A Massimo Loi, appena 22 anni, in carcere a Novara per un sequestro di persona, staccarono la testa, ci giocarono a calcio e infine la gettarono nella tazza di un water. Era il 1981. Nelle carceri italiane, la "giustizia" veniva amministrata da un manipolo di detenuti fatti a immagine e somiglianza di Hannibal Lecter, lo psichiatra folle del film Il silenzio degli innocenti. Cannibali. Quasi tutti spietati gregari di Cutolo, di Vallanzasca, o di Epaminonda. Vincenzo Andraous, detto il "boia", era uno di loro. Una fedina penale nera come la pece: omicidi, rapine, evasioni. Doveva morire anche lui, il 29 aprile 1987, quando nell' aula bunker di piazza Filangieri, a Milano, al termine di un' udienza processuale, due imputati di un clan rivale gli si avventarono contro armati di punteruoli e lamette. Ci vollero duecento punti di sutura per ricucirlo. Adesso lo chiamano il "poeta". Ha 40 anni e gli ultimi 18 li ha trascorsi in galera. Deve scontare un ergastolo ("non cinque, come hanno scritto i giornali"). Ma, anziche' tra le mura della prigione di Voghera, oggi festeggia la Pasqua a Cavalcaselle, sul lago di Garda. E arrivato giovedi' sera. Ritornera' in cella martedi' . Licenza premio per meriti artistici. Perche' Andraous oggi e' proprio un' altra persona. Scrive liriche delicate. E partecipa con profitto a concorsi letterari. Come il buon ladrone crocifisso due giorni fa sul Golgota, Andraous e' sinceramente pentito e si affida alla misericordia di Gesu' : "Credo in Dio fino al punto di temerlo, vivo tra mille rimorsi". E stato ammesso al lavoro esterno previsto dalla legge Gozzini: fa il giardiniere. Gli hanno anche concesso 45 giorni di vacanza l' anno. In carcere ha creato il Collettivo Verde per il recupero sociale dei compagni. Ha stretto amicizia con Marco Pannella. Milita nel Partito radicale. Se non e' redenzione questa. "Si' , mio padre e' davvero cambiato", testimonia fiera l' unica figlia, Ielenia, 19 anni. E motiva: "Si vergogna del male commesso e spera nella grazia per potersi rendere utile agli altri". La ragazza, faccia pulita, nemmeno un filo di trucco, studia per diplomarsi in ragioneria a giugno. Ha esitato molto prima di aprire la porta. Poi ha pensato che i latrati dei due cagnolini avrebbero tradito la sua presenza in casa e non se l' e' sentita di simulare. "Papa' non e' qui, oggi pranza fuori", si scusa. Ha staccato la cornetta del telefono. L' appartamento e' arredato con mobili moderni, senza lussi. "Vivo qui dal 1980, da quando e' morta la mamma . spiega .. Ad allevarmi e' stata la nonna". Romana Gandini Andraous, 60 anni, nata a Rivoli Veronese. La mamma dell' ergastolano. "Aveva sposato un ufficiale di Marina egiziano . racconta la nipote . che l' ha abbandonata con i due figli". Vincenzo ha cominciato presto a farla soffrire: aveva 15 anni il giorno in cui fu arrestato per il primo scippo. Accompagnata dalla nonna, Ielenia e' andata a trovare papa' nei penitenziari di mezza Italia. Di lei l' ergastolano dice: "E' la mia rivincita piu' grande. Abbiamo un rapporto ottimo, anche se, giustamente, censura con violenza il mio passato". Le ha dedicato una delle tre raccolte di poesie che l' hanno reso famoso: Non mi inganno, Samarcanda, Per una Madonna in jeans. "Esser padre, esser figlia: un dilemma che non so sciogliere. Ma l' unica rivincita solo tu. Mia Madonna in jeans". Cosi' la chiama in un componimento. Andraous si e' scoperto scrittore nei bracci di isolamento: "Il silenzio era cosi' assordante che mi misi a leggere libri per non sentirlo. Poi mi consolavo a parafrasare i passi piu' belli. Quando arrivava la perquisizione quotidiana, strappavo le pagine. Non volevo che altri le leggessero". Per fortuna non le ha buttate via. Non avrebbe mai immaginato che si sarebbero trasformate nel suo salvacondotto per questa Pasqua in famiglia.  

Lorenzetto Stefano,  Pagina 11 (11 aprile 1993) - Corriere della Sera


Ci si può spaventare e dire "ma io sono stato con uno così?". Ma sarebbe una domanda senza misericordia. Cuore duro. Sclerocardia. Ci si può invece meravigliare che un uomo così, proprio così!, sia riuscito a cambiare vita. Tutta la vita. Pur continuando a pagare. E se uno che ha morsicato il cuore di una sua vittima e ha giocato a calcio con la testa di un'altra, prima di buttarla nel water, è riuscito a convertirsi così tanto, non possiamo forse noi convertirci sulle piccoli e grande idiozie che ogni giorno ci fanno rallentare la vita?

Nessun moralismo su di lui.
Qualcuno su di noi ci farebbe sicuramente bene.



domenica 12 febbraio 2012

LEBBRA

Da cosa voleva essere guarito quell’uomo che supplica Gesù in ginocchio? Da quale male voleva essere purificato? Perché una malattia così diffusa e così grave è caricata da un così pesante carico di impurità. Qual è il vero male che fa soffrire: la malattia fisica o il suo essere considerato impuro, non degno, disumano? 
Non ci è forse immediato pensare a quanta sofferenza avrebbe patito un lebbroso ai tempi di Gesù. Ci è forse facile immaginarlo pensando al lebbroso abbracciato da san Francesco, oppure guardando qualche foto o filmato in cui una grande santa (ancora beata) dei nostri tempi mette tutta la sua vita a servizio della vita di questi malati: la beata Teresa di Calcutta. Di storie come queste ce ne sono a milioni. Molte sconosciute. Tantissime taciute. Ancora oggi. Perché la lebbra, ancora oggi, miete centinaia di migliaia di vittime ogni anno. Ma fin quando il problema sembra essere lontano da noi, pare inesistente. E noi, abituati a ricevere ogni giorno da giornali e tv cifre impressionanti di persone morte, rimaniamo oramai impermeabili a problemi che ci trasciniamo da secoli. Impermeabili, quindi indifferenti. Quindi lebbrosi, perché disumani. 
C’è una lebbra che colpisce la carne: ti sfigura, ti mutila, ti rende orribile agli occhi delle persone, ti rende dis-umano, cioè non più uomo, al limite di uno strano oggetto. C’è una lebbra che colpisce il nostro modo di stare nella vita: l’indifferenza. Essere indifferenti significa non gustare le differenze che ci rendono unici. Essere indifferenti significa non mettere al primo posto il bene, ma il benessere (il nostro benessere). Stare bene prende il posto del vivere bene, del vivere una vita buona e una vita buona, da quanto posso capire, è una vita che non ruota soltanto attorno al nostro ombelico. Dai racconti dei nostri nonni ci arriva spesso la descrizione di come si viveva la vita “una volta”. Quasi sempre c’è nostalgia, ma non di quella pesante e noiosa, di quella che non fa andare avanti, piuttosto una nostalgia che fa capire come si possa davvero vivere diversamente, anche in tempo di guerra o, diremmo noi oggi, di crisi. Perché è vero che la vita è dura quando è piena di problemi, ma se questi problemi sono condivisi e affrontati insieme, forse diventa più facile continuare a vivere ogni giorno che il buon Dio ci vuole donare. In quei racconti si parla di poco cibo condiviso tra tanti fratelli, di rinunce fatte col sorriso nonostante la fatica, per un bene maggiore che si intravvedeva all’orizzonte. Forse i nostri nonni erano più capaci di sperare, cioè di vedere un senso anche nelle prove e nelle crisi che vivevano. Forse i nostri nonni erano meno indifferenti ai problemi degli altri perché quel poco che avevano lo percepivano come importante e come un dono, arrivato dal Cielo. A loro nulla era dovuto. Nemmeno una guarigione inaspettata. I nostri nonni sapevano che è la speranza la cura per la lebbra dell’indifferenza. 
Il lebbroso di questa pagina del vangelo (Mc 1,40-45) non si aspettava di essere guarito, ma lo sperava da quel Maestro capace di guarire la vita, capace di purificare da ogni macchia, capace di toccare le più vergognose piaghe che affliggono l’uomo. Per questa sua speranza viene guarito, per questa sua fiducia in Gesù viene salvato e può finalmente ritornare ad essere uomo. La prova di questo suo ritorno alla vita è la sua prima disobbedienza al consiglio di Gesù di mantenere segreta la sua guarigione: ritornare a vivere una vita vera, da uomini, da figli, non lascia indifferenti, non lascia “lebbrosi”, ma fa scaturire da questo miracolo una grande gioia che si vuole condividere. Fa venire voglia di scappare dai lazzaretti in cui si è vissuti rinchiusi fino a quel momento e di ritornare in città, di scappare dai deserti vuoti e senza senso per tornare a vivere, sperando, tra le case degli uomini.


domenica 5 febbraio 2012

FEBBRE

Nella vita ci sono periodi positivi e periodi negativi, tempi felici e tempi meno sereni. Fasi up e fasi down. Non è vero dunque che va sempre “tutto bene!”. Che ipocrisia di facciata la risposta cortese: “tutto bene, grazie!”, quando in realtà il mondo ci sta cadendo addosso! Quanta fragilità nascosta in certe risposte, che dicono poca fiducia negli altri, che ci fanno sentire ancora più deboli, ancora più “pecore nere”, come se la fragilità, i problemi, le malattie, le cose che non vanno, colpissero solo noi. No, non è proprio così! Non siamo gli unici a voler fuggire dalle tenebre. La vita di tutti è piena di ombre, per questo abbiamo fame di luce e di amore. E quando questa luce e questo amore arrivano nella nostra vita, ci si risveglia come da un lungo e tremendo incubo, dal quale vogliamo scappare velocemente e ritornare a vivere.
 Quando la luce e l’amore entrano (o ri-entrano) nella nostra vita ci si sente tutto ad un tratto come guariti da una febbre, che aveva tolto le forze fisiche, che aveva tolto la voglia di stare con gli altri, di essere importante per qualcuno. 
Chissà, forse la febbre che aveva colpito la suocera di SimonPietro le aveva tolto anche la voglia di amare i suoi cari e l’infermità la stava a poco a poco uccidendo. 
Ciò che colpisce è la premura e il bene che si intravede nei gesti di Simone, di Andrea e degli altri due discepoli di Gesù, che “subito”, con quella rapidità che solo l’amore permette, gli parlano di lei. Quella donna, così inferma, così immobile, così paralizzata dalla sua malattia, può contare sulla presenza e sull’intercessione di qualcun altro, che può parlare di lei al Maestro. Non inizia forse da qui la sua salvezza? 
Mi viene da paragonare il gesto buono di questi uomini che portano a Gesù una malata (anche se in questo caso il movimento è l’opposto, in quanto Gesù viene portato dalla malata) alla determinazione e alla fatica fatta dai barellieri del paralitico calato dal tetto della casa. Scena simile, grande premura e affetto per quel loro amico. Gesù, di tutto questo, nota la grande fede di quegli uomini, che permette loro di compiere quel gesto di amore. 
Ecco allora un segreto per guarire dal male: la bellezza di una fede capace di fare fatica per gli altri, che non ha vergogna di nascondere le proprie fragilità, che ci mette la faccia davanti a tutti e con semplicità riconosce il proprio limite. Ma, più di tutto, una fede capace di rivolgersi al maestro giusto: anche i demòni, infatti, conoscono Gesù, ma a differenza della gente normale, che si rivolge a lui per farsi aiutare, non hanno mai avuto l’umiltà di farsi guarire il cuore da lui. E continuano a tormentare la vita degli altri.
Forse il vangelo di questa domenica ci insegna che i miracoli possiamo compierli anche noi, senza aspettare troppe magie che risolvano dal nulla i nostri problemi. A noi è data la possibilità di rivolgerci all’unico Maestro che ci insegna il vero amore e di prenderci cura gli uni degli altri, nelle nostre tante ombre che rimangono fino ad oggi piccole mancanze di Luce e di Amore, le più potenti medicine che salvano la vita.