domenica 25 dicembre 2011

INSOMMA, UN PO' DI LUCE






Caro Gesù Bambino, 
quest’oggi vorrei dedicare a te questi semplici e poveri pensieri, non perché non siano importanti le persone che partecipano a questa celebrazione, anzi!, li hai invitati proprio tu, in un modo o in un altro, ma perché oggi è davvero la tua festa e mi pare importante, ancora più delle altre volte, lasciare a te il maggior spazio possibile in questa giornata. Altrimenti, non facciamo solo un dispetto a te, magari senza neanche accorgerci. Ma lo facciamo sopratutto a noi stessi. Oggi il festeggiato sei tu! 
Ti abbiamo aspettato. Ti abbiamo aspettato tanto. Qualcuno di noi si è messo in cammino verso la tua venuta, insieme a tutta la Chiesa, e in quel tempo che la tua Chiesa ha chiamato Avvento, si è lasciato provocare e illuminare dalla tua Parola che salva, dalla Parola del Padre, che lo Spirito santo ci ha donato per camminare sulla via della vita. 
Qualcuno di noi ha fatto un po’ di fatica: nella tua Parola che salva ci hai chiesto spesso di rimanere svegli, di rimanere attenti alle cose che ci succedevano, senza lasciarci distrarre da troppe preoccupazioni. Però.. quanto è difficile! Lo ammetto anche io: in questo ultimo mese, prima che noi ricordassimo l’evento prodigioso della tua nascita, anche io mi sono lasciato spesso prendere da mille preoccupazioni. Cosa ci possiamo fare? La vita, la nostra vita di uomini, è fatta soprattutto di queste cose, e noi, poveri figli del Padre tuo che è nei cieli, cerchiamo tutti i giorni di vivere al meglio e di far fruttare tutti quei doni che la sua bontà ci ha affidato. Ma non è sempre facile! In questo nostro tempo, nonostante tutti i mezzi che abbiamo e che si siamo costruiti per far sì che la nostra vita sia molto più facile, vivere, vivere bene, vivere una vita bella, buona e vera, è sempre più difficile. Abbiamo tutto e più di tutto. Eppure, ci manca sempre qualcosa. Non siamo mai contenti! Se facciamo invece qualche esperienza, magari un po’ scomoda, che ci fa toccare con mano anche un po’ di povertà, anche qualche fatica, ma per un bene più grande, magari per il bene di qualche nostro fratello più bisognoso, allora capiamo che la felicità nostra non è nelle cose che abbiamo o che non abbiamo, che il nostro cuore non gioisce se sappiamo tante cose o siamo più furbi degli altri. A furia di continuare a fare i furbi, ultimamente, ci siamo anche abbastanza rovinati. E viviamo un tempo in cui il futuro, più che essere il luogo dei nostri sogni, il luogo in cui i nostri desideri possono trovare la loro realizzazione, sta diventando sempre di più qualcosa di incerto, una specie di mostro senza figura, senza un contorno certo. Qualcosa insomma che ci fa paura. Come il buio! 
Sì, perché devi sapere, caro Gesù Bambino, che a noi uomini il buio fa ancora paura. Non è una paura solo da bambino. Anzi! La mancanza di luce spaventa più i grandi che i piccoli. I piccoli, almeno, sanno che quando sentono paura possono sempre chiamare mamma o papà, che li aiuti a superare quel momento. Noi grandi, invece, quando siamo presi dalla paura del buio ci paralizziamo, non chiediamo aiuto a nessuno, a volte scappiamo, senza chiederci il perché di quelle tenebre. E ci facciamo andare bene la vita anche così: al buio. Ma che vita è una vita al buio? Una vita piena di tenebre, di ombre, di paure?
Perché non troviamo la forza di affidarci a te, che sei venuto nel mondo per vincere le tenebre, sei venuto nel mondo come luce per illuminare il mondo? Perché facciamo fatica a credere a te, alla tua vita, alla tua Parola, mentre troviamo molto più credibili le favole che tutti i giorni la televisione ci racconta? Perché ci emozioniamo di più di fronte ai racconti inventati di tanti programmi televisivi, che si accontentano di non farci pensare e di farci perdere un sacco di tempo? 
Ma non è solo la paura del buio che ci colpisce. Una volta ho letto da qualche parte una frase di un famoso filosofo dell’antichità, che è vissuto qualche secolo prima di te. Si chiamava Platone e diceva così:
Possiamo perdonare un bambino quando ha paura del buio. La vera tragedia della vita è quando un uomo ha paura della luce”.
Quanto è vera questa frase! Ce lo ha ricordato anche il Vangelo che abbiamo letto poco fa: “veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo...eppure il mondo non lo ha riconosciuto”. 
Questa notte, durante la veglia e la messa, tantissimi di noi hanno potuto sperimentare l’effetto di questa luce che viene nel mondo. Hanno ricordato ciò che più di duemila anni fa è successo, in quella notte così buia, a Betlemme di Giudea. Tutto era avvolto dalla notte, eppure, ad un certo punto, tutto si è fatto nuovo, tutto è stato ricoperto e illuminato dalla tua luce: Maria e Giuseppe nella stalla, i pastori vicino alle loro greggi, i Magi, quei sapienti che abitavano tanto lontano da te, che videro proprio in quella notte, il sorgere della tua stella, che li avrebbe guidati fin da te per riconoscerti come il nuovo Re dei Giudei.
Ci sono voluti due semplici persone per farti nascere: una giovane ragazza vergine, e il suo sposo, che si è impegnato con tutto se stesso per proteggere Maria e per farti nascere, così come l’angelo gli aveva chiesto in sogno. 
Ci sono voluti dei semplici pastori, persone che noi definiremmo un po’ ignoranti, un po’ rozze, per cantarti i canti più belli, per venire ad adorarti senza indugio, senza paura. Invece noi, davanti a persone semplici, il massimo che possiamo fare è quello di sentirci superiori a loro. 
Ci sono voluti uomini che venivano da terre lontane e straniere per riconoscerti come Re del cielo e della terra. Invece noi, quando siamo davanti a fratelli e sorelle stranieri, ci facciamo prendere o dalla paura o da quel brutto senso di insofferenza nei loro confronti, che ce li fa giudicare, che ce li fa allontanare e condannare come ladri o buoni a nulla, senza nemmeno sapere che proprio in quei fratelli tu vuoi essere accolto. 
Tu in questi santi giorni di festa ci parli direttamente con il ricordo della tua nascita e dei primi grandi eventi della tua fragile vita di uomo. Ti chiedo, come piccolo dono, quello di insegnarci una volta per tutte, ad accoglierci tra di noi come fratelli. Non come amici, perché gli amici ce li scegliamo. Ma come fratelli: perché i fratelli non si scelgono, si accolgono e basta. 
Insegnaci a vedere nelle persone semplici e povere il tuo volto, insegnaci a vedere in chi soffre non un peso, ma qualcuno da amare con più intensità. 
Insegnaci, ti prego, a non farci odiare uomini e donne come noi, uguali a noi, che bussano alle nostre porte per chiederci un lavoro, un po’ di pane, un po’ di futuro. Insomma, un po’ di luce! 
Insegnaci, caro Gesù Bambino, ad essere luce come te, a comprendere che tu sei la nostra luce. 
Insegnaci a non avere paura del buio, delle tante tenebre che avvolgono la nostra vita, a non farci paralizzare da queste tenebre. 
Insegnaci il segreto per non avere paura della tua luce, per non scappare dalla tua Parola che può salvare veramente la vita di tutti: bambini, ragazzi, giovani, adulti, anziani... 
Insegnaci a fare silenzio e ad ascoltare: ad ascoltare le persone che incontriamo tutti i giorni, ma ad ascoltare soprattutto te. Forse in questi giorni, rimarremo un po’ stupiti nell’ascoltarti: ci aspettiamo magari grandi risposte, grandi parole, grandi intuizioni, e invece da te, probabilmente, avremo solo dei teneri vagiti, qualche pianto, qualche sorriso senza parole. 
Ma non è forse questa la tua bellezza, Gesù? Non è forse questa la bellezza straordinaria e scandalosa della notizia più grande di tutti i tempi, quella di un Dio che nasce come un bambino, che si fa uomo come ciascuno di noi? 
Lasciaci ancora stupire per la tua nascita, caro Gesù Bambino. 
Solo così, la tua e nostra luce, potrà risplendere davanti a tutti gli uomini! 

Tanti auguri di buon compleanno, caro Gesù! 
E grazie, perché anche quest’anno ci hai fatto il regalo più bello di tutti: sei nato per noi!

giovedì 22 dicembre 2011

"AMA IL TUO RITMO"


Ama il tuo ritmo e ritma le tue azioni 
secondo la sua legge, e insieme i versi; 
tu sei un universo di universi 
e, nell'anima, fonte di canzoni.       

La celeste unità che presupponi 
farà nascere in te mondi diversi, 
e, risonando, i tuoi numeri spersi 
pitagorizza in tue costellazioni.       

Ascolta la retorica divina 
dell'uccello dell'aria, e la notturna 
raggera geometrica indovina; 

schiaccia l'indifferenza taciturna, 
perla con perla infilza cristallina 
dove di verità si versa l'urna.

(Rubén Darìo - da Le anfore di Epicuro)





domenica 18 dicembre 2011

VICINO E POSSIBILE

Ormai ci siamo accorti tutti che il Natale si sta avvicinando sempre di più: mancano solo sette giorni e da un paio abbiamo iniziato anche la Novena che ci accompagnerà fino alla notte santa, tra una settimana esatta! 
E' vero che il Natale si sta avvicinando sempre di più a noi. Forse però sarebbe più corretto dire che siamo noi che ci stiamo avvicinando a questo giorno così speciale dell’anno e in questa ultima Domenica di Avvento vogliamo avvicinarci un po’ di più insieme a una persona davvero speciale. 
Se Gesù, che è il Figlio di Dio, è una persona speciale, non ci possiamo dimenticare di quella persona senza la quale Gesù non sarebbe neppure nato. Ed è la sua mamma, Maria! 
Maria, forse, è la persona che più di tutti è stata vicino a Gesù, così vicino che lo ha avuto anche dentro di lei per nove mesi, quel tempo necessario per aspettare che un bambino nasca e venga alla luce. Ma se è vero che tra qualche giorno ricorderemo gli eventi successi nei giorni della nascita di Gesù, è anche vero che il brano di vangelo che abbiamo ascoltato oggi (Lc 1,26-38) ci riporta un po’ indietro nel tempo: precisamente nove mesi prima la nascita di Gesù. 
Possiamo farlo anche noi questo esercizio di fantasia, per comprendere meglio il contesto e immaginarci la scena di questo incontro tra l’angelo Gabriele e questa giovane ragazza di Nazaret. Se i calcoli degli studiosi della Bibbia sono corretti, Gesù sarebbe nato davvero in questo periodo dell’anno, che noi chiamiamo Dicembre, e quindi il giorno in cui Gabriele è apparso a Maria, per portarle la notizia più bella della sua vita, dovrebbe essere durante il mese che noi chiamiamo Marzo. 
Nel mese di Marzo, ogni anno, incomincia la primavera, che noi chiamiamo "la bella stagione" perché la natura ri-comincia a fiorire e la vita ritorna visibile in un mondo che è rimasto durante i mesi freddi e bui dell’inverno, addormentato, un po’ in letargo e un po’ morto. 
L’angelo del Signore porta a Maria in primavera, in giorni pieni di gioia, di colori, di allegria, di speranza, una notizia straordinaria: “concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo... e il suo regno non avrà mai fine!”. E’ davvero una notizia speciale, che nessuno, tanto meno Maria, si aspettava di ascoltare!  
Tutto il racconto, sembra avere un po’ dell’incredibile: una giovane ragazza, forse di quindici, sedici anni; un messaggero che si presenta come un angelo di Dio, un angelo mandato dal cielo che raccomanda di stare allegri: “rallegrati, piena di grazia, il Signore è con te”, dice Gabriele a Maria un po’ turbata, un po’ impaurita da quel saluto per lei senza senso; e poi c’è la rivelazione di tutte le rivelazioni, la notizia più strana e scandalosa di tutti i secoli: Dio ha deciso di nascere sulla terra, di nascere con il corpo di uomo e di scegliersi la sua mamma! Quello che per noi è abbastanza normale, perché sappiamo bene che Gesù è un uomo vero, per Maria, quel giorno non deve essere stato molto semplice da ascoltare, perché a quel tempo, la gente si immaginava Dio come un essere irraggiungibile, che abitava in chissà quale posto nell’universo. A volte invece, alcuni uomini hanno avuto la pretesa di rinchiudere Dio in un posto preciso, pensato e costruito da loro. Come è successo a Davide, il giovane re del popolo di Israele che preso da un grande amore per il Signore, fa una promessa un po’ difficile da mantenere, quella di non dormire più fino al termine della costruzione del tempio a Gerusalemme. Un proposito troppo alto, come a volte ci capita di fare anche a noi, promettendo al Signore tante cose, sicuramente tutte buone e sante, ma che facciamo davvero tanta fatica a rispettare. Allora, forse è meglio capire bene cosa manca ancora nella nostra vita e, a poco a poco, cercare con l’aiuto del Signore di raggiungere quella meta, senza volare troppo in alto, tenendo i piedi per terra! 
Maria, i piedi per terra li aveva ben saldi, ma aveva imparato fin da piccola che non bastava avere i piedi per terra, che occorreva anche saper guardare in cielo, bisognava nella vita avere tanta fiducia in Dio e a volte avere anche il coraggio di credere in cose straordinarie. Perché Dio non è uno come tutti gli altri: Dio è straordinario! E chi è straordinario è capace di fare grandi, grandissime cose. 
Per questo verso la fine di quella chiacchierata, in quel giorno di primavera, Maria chiede all’angelo non tanto come sarebbe potuto succedere una cosa così, come se non ci credesse veramente, ma il modo in cui concretamente Dio aveva pensato di farle visita. Maria, insomma, è davvero curiosa e non vede l’ora di guardare con i suoi occhi quanto Gabriele le stava annunciando. 
Anche noi siamo curiosi come lei? 
Anche noi non vediamo l’ora di guardare quel bambino, che sarà chiamato “Figlio dell’Altissimo”?
Anche noi siamo capaci ancora oggi, dopo duemila e undici anni, di continuare a guardare il cielo con i piedi per terra? 
Se a queste domande vogliamo dare una risposta, non ci resta che vivere questa settimana, come abbiamo già imparato a fare negli scorsi giorni: stando attenti che la nostra vita sia il più semplice possibile, per arrivare domenica notte ad accogliere Gesù Bambino, con il cuore contento e il sorriso sulle labbra. 

Maranatha! Vieni, Signore Gesù!

mercoledì 14 dicembre 2011

“ O MIO CARO E...BUON GESU' ”


Caro Gesù Bambino, 
ti scrivo questa letter-ina per tanti motivi. 
Primo perché sono passati tanti anni da quando ti ho scritto, proprio sotto Natale, una lettera piena di desideri. Quest’anno, a voler ben vedere, non ho grandi regali da chiederti. Per questo vorrei soltanto scriverti. Scrivere! Perché questa azione, da un po' di tempo mi fa star bene. Ma questo tu già lo sai. Anzi: tu sai proprio tutto. Sai già quello che voglio scriverti, quello che sto pensando e che le mie dita stanno concretizzando su questa tastiera. E allora perché scriverti una lettera e pubblicarla su Diapason? 
La risposta non sono sicuro di averla, ma penso che possa fare piacere a qualcuno il leggere quelle cose che ho voglia di dirti questa notte. Scrivo di notte, perché di giorno, normalmente, non ho molto tempo e se anche ne ho un pochetto, le parole mancano, non si mettono in fila ordinata, come invece mi pare stiano facendo ora. 
Ti voglio scrivere perché qualcuno mi ha chiesto di aggiornare questa pagina. Io non riesco a capire come possa succedere, ma negli ultimi giorni più persone mi hanno confidato di leggere fedelmente questo blog e di aspettare sempre qualche aggiornamento. Mi dico sempre che o sono pazzi o hanno tanto tempo libero: in entrambi i casi sento di volere un po' più di bene a queste persone, che apprezzano quello che per me è spesso il frutto della semplicità, il risultato di una grande e faticosa ricerca oppure, il più delle volte, il mio punto di vista sulle cose che mi capitano. 
Ti ricordi il mio amico Filomeno? È partito da un po' di mesi e già mi manca molto. Manca a tutti, a dire il vero. Bene, proprio lui notava spesso la capacità (secondo lui) di ruminare quello che "brucavo" dalla vita. Insomma mi dava del bovino! Ma lo faceva per farmi un complimento, ovviamente. 
Non so se sono vere le cose che diceva su di me, saranno gli altri a dirlo. So solo che la quantità di vita che ho brucato in questi ultimi giorni (e nelle ultime sere) mi darà da ruminare per un sacco di tempo. 
C'è stata, per esempio, la bravata vandalica di qualche ignoto personaggio, che si è divertito a rovinare un po' di automobili, tra le quali la mia. Vorrei (e forse questo è un po' un desiderio che affido alla tua disponibilità) un giorno conoscere i responsabili. Non per denunciarli o per chiedere loro i danni (per quello hanno inventato delle comode assicurazioni), ma, insomma, per guardarli un po' negli occhi, cercando di capire che cosa hanno dentro, se la noia o la rabbia li ha portati a fare cose così strane, a compiere atti di vero e proprio vandalismo. Se troverò occhi spenti o persi o rossi con le pupille dilatate, allora capirò tante cose di queste persone. 
Altrimenti, non saprei...
Probabilmente me ne tornerei a casa con un senso di fallimento. Io, per loro. O forse per i loro genitori, per i loro insegnanti, per chi in qualche modo è stato loro educatore. 
In questi giorni, davanti a tante “crisi” sembra che le parole manchino. Pensa a ieri pomeriggio, a Firenze. Le parole mancano. La Crisi, che non riguarda solo il nostro modo furbo di fare economia, mi sembra ci stia rendendo sempre più muti, sempre più senza parole. Ci toglie la parola. 
Ho notato, per esempio, come sia sempre più difficile rapportarsi alle parole. A giorni sembra che non abbiano proprio nessun peso e quindi passiamo ore e ore a parlare. Di niente. 
Altri giorni le parole ci escono dalla bocca, lucide e chiare, distinte e razionali e vanno a colpire là proprio dove la nostra testa vuole che vadano. Sono le parole dei giudizi, quelle frasi composte da soggetto e verbo essere e in genere qualche attributo. I giudizi fanno “essere” qualcosa o qualcuno così come la nostra testa ci suggerisce. Ma è Natale: come vorrei che a suggerire le parole da dire e i giudizi sia piuttosto il cuore. 
Un cuore che sia capace di mandare giù bocconi amari; un cuore che sia disposto ad sopportare il bruciare di antiche ferite, il vedersi di profonde cicatrici; un cuore che sa ascoltare! 
Altro problema: l’ascolto. Non ci si ascolta più. In nessuno modo, in nessuna occasione. Ho a che fare con tanti ragazzi, per lo più adolescenti (“studenti” o “liceali”, per chi ha paura ad usare il corretto modo di chiamare i ragazzi, che bambini non sono più e nemmeno già adulti). 
Per questo sublime tempo della vita ascoltare sembra diventato più un nemico che un alleato. Ascoltare comporta il silenzio e il silenzio comporta fatica. Quindi, come tu ben sai, è una battaglia spesso persa fin dall’inizio. Facciamo fatica a tenere la bocca chiusa. Facciamo fatica a tenere le orecchie chiuse. Facciamo fatica a fermare i pensieri. Facciamo fatica a frenare la cascata di ricordi che come un getto impetuoso di acqua a volte ci travolge. Facciamo fatica a metterci davanti ad una persona e ad accettare quello che lei vuole donarci: un po’ del suo tempo, un po’ delle sue parole, un po’ della sua vita. 
Non so se ci annoia la vita degli altri. Forse è questo il problema! 
O forse è altro. Non lo so, davvero. 
Però... così non è molto bello andare avanti. Tu puoi fare qualcosa per noi? Ci puoi insegnare qualcosa di nuovo o siamo noi che dobbiamo ripassare l’antica e perfetta lezione di sempre, quella che ci hai insegnato tu, con la tua vita?
Perché a pensarci bene tu hai fatto proprio così: hai voluto che noi ascoltassimo te e le tue parole, che sono ancora te incarnate nel corpo di un uomo. 
In maniera differente ogni uomo e ogni donna spera che nasca, da qualche parte, il Salvatore del mondo, o comunque della loro vita. 
Una volta ti chiamavano Messia. Ora ti chiamano in modi diversi. Però il senso è lo stesso: bisogna aggiornarsi! 
Mi colpiva la il modo in cui un giorno hai parlato di te stesso, quando quella donna, un po’ strana, è andata a mezzogiorno a prendere l’acqua al pozzo, in Samaria, e ti ha trovato assetato; ad un certo punto ti ha detto che anche loro aspettavano il Messia. 
Tu, con grande facilità, hai dato una delle definizioni più belle di te che abbia mai sentito: “sono io, che ti parlo”. Ma se il Salvatore del mondo sei tu che ci parli e noi non siamo capace di ascoltarti... come facciamo a salvarci? 
Se riesci a rispondermi, quando vuoi con calma, mi piacerebbe sapere cosa ne pensi, perché io di risposte ne ho sempre di meno. Anche se questa cosa non mi angoscia più di tanto e mi rende tanto leggero. 
Un po’ come le amicizie, anzi, come la “vera amicizia”. Ti ricordi? Quella che non è mai banale, come la musica che profuma la vita, come il giardino in cui ci si può riposare dalle fatiche di ogni giorno, come uno sguardo in cui sprofondare senza vergogna, senza preoccuparsi dell’imbarazzante banalizzazione del mondo. Ecco quella! Non c’è bisogno che ti scriva anche di quella. Tu sai tutto! 
Siamo noi, che con il nostro ego smisurato, sguazziamo in una cisterna piena di cose che nessuno sa più comprendere e disdegniamo la profonda libertà del mare. 
Tra dieci giorni tutta la terra farà, forse, un po’ di silenzio e, spero, si ricorderà un pochetto di te. 
Sono pieno di speranza. Perché vedo che la speranza manca sempre di più nelle case delle persone. 
Sono pieno di speranza e, nonostante tutto, mi pare di sapere che la Luce, dopo tanto buio, ri-splenderà. Forse hai dato anche a me e ai miei compagni di classe il compito di risplendere per far passare un po’ di buio. Non so se sono capace di farlo da solo, cioè... senza di te. 
Per cui... il più grande regalo che ti chiederei è quello di nascere. Punto e basta. Semplicemente!

O mio caro e buon Gesù...
Ci sono cose che nessuno sa.
Ma Tu sai tutto! 

Ti aspetto! 
tuo, 
dAn


venerdì 25 novembre 2011

IMPROVVISO

Progettare e programmare sono due azioni molto importanti. Aiutano a fare meglio le “cose”, a lavorare meglio, a pensare il futuro, a non trovarsi impreparati davanti agli imprevisti di ogni giorno. 
Progettare e programmare richiedono molto tempo, molta pazienza, un po’ di entusiasmo; allenamento alla fatica, anche al ritorno abitudinario di qualcosa che passa, puntuale, come un tram (puntuale?). 
Progettare e programmare obbligano chi lo fa ad appassionarsi al motivo per cui ci si siede attorno a un tavolo e si pensa, meglio insieme ad altre persone, iniziando brainstorming orali o scritti, chiacchierando delle persone, delle idee, delle vite. 
Progettare e programmare sono nemici della noia, della fretta, del “facile”. Progettare e programmare sono per chi vuole vivere una vita semplice, dove la semplicità passa attraverso l’azione. Un’azione progettata e programmata. Ho sempre raccomandato a quelle belle persone che il Cielo mi ha messo sulla strada (per aiutarci insieme ad educare le piccole vite che ci sono affidate) l’importanza di non essere ingenui improvvisatori o leggere e brillanti, magari al momento abili, copert-ine. Meglio "perdere" qualche volta tempo in più che perdere per sempre vite e occasioni.
Ma fino adesso non ho di che lamentarmi.




Chi accompagna la vita degli altri non può limitarsi ad improvvisare: anche i migliori jazzisti non suonano note a caso!


domenica 20 novembre 2011

FELICI E CONTENTI

Primo articolo della Costituzione italiana: "L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione".
L'Italia è dunque una repubblica e a decidere come devono andare le cose dovrebbe essere il popolo, l'insieme cioè di tutti i cittadini italiani. 
Ci sono poi alcune nazioni, che non sono governate da una repubblica. In alcuni stati, anche vicini a noi, vige da tanti anni una monarchia, dove il potere è più o meno esercitato da un monarca, cioè da un re.
Quando noi "repubblicani" pensiamo ad un re, ce lo possiamo immaginare all'interno del suo palazzo, circondato da tante persone che lo servono e lo riconoscono come il capo assoluto. 
Conosciamo i re delle favole, quelli che permettono di finire la storia "tutti felici e contenti". 
Guardando la tv, qualcuno si sarà anche emozionato quando il futuro re di Inghilterra si è sposato con la sua principessa. E ci capita di sentire sempre tanti pettegolezzi sulla vita dei re di questa terra. 
A volte, qualche re diventa pazzo, e invece di governare con saggezza il suo popolo, si trasforma in un tiranno e obbliga i suoi sudditi a vivere nella paura e nella povertà, spesso in situazioni di guerra, quasi sempre senza libertà. 
Oggi, noi cristiani, celebriamo la Solennità di Gesù Cristo, Re dell'Universo. 
Anche per il nostro re si fa una grande festa. 
Ma a chi facciamo festa oggi? A un re vanitoso? A un re dittatore? A un re come quello delle favole? Che tipo di re è Gesù?
Le letture che abbiamo ascoltato ci aiutano a capirlo un po’. Il profeta Ezechiele, in una delle sue particolari profezie, parla a nome del Signore e ci racconta come Dio stesso si comporta con il suo popolo: un Dio che ha cura di tutti gli uomini, come un pastore ha cura di tutte le sue pecore, le conosce una ad una, le cerca personalmente. Un Dio che di mestiere fa il pastore, che si dà un sacco da fare per le sue pecore perché le ama, con tutto se stesso e non fa mancare loro mai nulla. Un pastore così premuroso ogni pecora (se capisse) lo vorrebbe avere! Un pastore che non è solo un uomo buono, ma è Dio stesso che si fa uomo e si fa pastore, mettendosi al servizio della nostra vita. Così che, anche se “per mezzo di un uomo venne la morte”, e anche se ci sono un’infinità di motivi che non ci fanno percepire la bontà e la bellezza della vita, e della vita come figli di Dio, siamo certi, nella fede, che “per mezzo di un uomo” tutti riceveranno la vita. 
Come si fa, allora, ad accogliere questa vita, la vita di Dio, che ci viene regalata, come un pastore regala la sua vita per le pecore? 
Come si fa ad accorgersi che la vita eterna inizia adesso, qui, sulla terra, ora, in questo preciso istante? Come si fa a chiamare “Re dell’Universo” un uomo, che ha per trono la croce della sua condanna a morte? 
Il Vangelo, come sempre, è più chiaro di ogni parola umana e di ogni tentativo di spiegazione. 
Quando il Signore Gesù verrà, e siederà sul trono della sua gloria dirà a tutti gli uomini: 
Ho avuto fame”: ad alcuni dirà: “voi mi avete dato da mangiare”; ad altri dirà: “voi no!”.
Ho avuto sete”: ad alcuni dirà: “voi mi avete dato da bere”; ad altri dirà: “voi no!”.
Ero straniero”: ad alcuni dirà: “voi mi avete accolto, in casa vostra, come vostro fratello”; ad altri dirà: “voi no, mi avete cacciato via, come si caccia via un animale pericoloso, che fa paura”. 
Ero nudo”: ad alcuni dirà: “voi mi avete vestito, non con abiti che altri hanno scartato, non con vestiti vecchi, rotti, che a voi non servivano più, ma con gli abiti più belli che avevate”; ad altri dirà invece: “voi no, vi siete accontentati di darmi quello che vi avanzava”.
Ero malato”: ad alcuni dirà: “voi mi avete visitato e con la vostra presenza avete reso più leggero il tempo della mia malattia”; ad altri dirà: “voi no, eravate così preoccupati delle vostre faccende, da non accorgervi neanche che ero malato!”.
Ero in carcere”: ad alcuni dirà: “grazie, perché siete venuti a trovarmi e nonostante i miei errori e i miei sbagli, continuate ad avere fiducia in me”; ad altri dirà “voi no, perché non avete creduto in me e i miei errori e i miei sbagli sono diventati l’unica cosa che vede di me!”.
Allora gli uni e gli altri chiederanno, stupiti o preoccupati: “Ma Signore, quando mai è successo tutto ciò? Quando sei stato affamato, assettato, straniero, nudo, malato, in carcere...?”.
Oggi, come allora, la risposta sembra essere ancora la stessa.


Fermandoci bene a riflettere, forse, il Vangelo è ancora capace di farci diventare un po’ più buoni, un po’ più umani, un po’ più figli, un po’ più fratelli. 
Ecco il nostro Re: un re che ci dona la vita perché possiamo gustare la bontà della sua vita e la bellezza di essere fratelli tra di noi e figli di un unico Padre. 
Solo così, da figli e fratelli, potremo allora dire di vivere per sempre "felici e contenti!". 

domenica 13 novembre 2011

TIEPIDAMENTE IN RISERVA

La parola “vangelo” deriva da un termine greco che tradotto in italiano vuol dire “buona notizia”, si sa, e ci sono anche tanti altri sinonimi, che ci fanno comprendere di cosa parliamo quando parliamo di vangelo: una buona notizia, un annuncio di speranza, un annuncio di gioia, delle parole belle, dei racconti che parlano di felicità e vita eterna, cioè di vita vera, di una vita che ci aspetta dopo le fatiche della nostra esistenza. 
Il vangelo è formato da una serie di racconti, di discorsi, di vicende che riguardano Gesù di Nazareth, la sua vita, la sua morte, la sua risurrezione, e a noi cristiani è chiesto dallo stesso Gesù non solo di venire a conoscenza di quanto lui ha fatto, non solo di sapere cosa sia successo duemila anni fa in Palestina, ma di vivere quanto Lui ci ha detto, per non rischiare di sprecare la nostra vita terrena e perdere di vista la cosa più importante: amare Dio come un Padre e tutti gli uomini come nostri fratelli. 
Eppure c'è qualche pagina del vangelo, che non sembra molto simpatica, che cerca di spiegare chi sia Dio in un modo un po’ strano, parlandoci, ad esempio, di un padrone che appare come un uomo duro, che miete dove non semina e raccoglie dove non ha sparso. Un uomo, insomma, che pretende tanto, anche troppo, dai suoi servi! E lo fa senza troppi problemi, senza chiedersi se sia giusto o meno, giudicando i suoi servi solamente da quanto sono stati capaci di fare. 
Perché Gesù racconta questa parabola? Perché Gesù ci presenta un’immagine di Dio così forte, che fa quasi paura? Se ci ha già detto in altre pagine del Vangelo che Dio è un padre disposto a perdonare, perché ora ce lo descrive come un padrone severo quasi che fosse un giudice ingiusto? 
Ci sono sicuramente due comportamenti diversi da parte del padrone: quello con i servi buoni e fedeli e quello con il servo malvagio e pigro. Due comportamenti diversi perché diversamente si sono comportati i primi due servi e il terzo: il primo servo è stato capace di raddoppiare la ricchezza che gli era stata affidata e passa da cinque a dieci talenti. Anche il secondo servo è stato capace di far guadagnare il suo padrone, raddoppiando quanto gli era stato dato. Il problema sorge quando si presenta il terzo servo: un talento affidato, un solo talento restituito. E il guadagno è pari a zero! 
Questi servi hanno avuto la possibilità di tenere tra le mani le grandi ricchezze del loro padrone: ognuno secondo la sua capacità, secondo le sue possibilità. Il padrone, che si è fidato ciecamente di quei suoi servi, potrà allora avere o no il diritto di provare piacere nel vedere aumentata la sua ricchezza e ad arrabbiarsi di fronte al servo pigro? 
Forse ci dà fastidio sentire parlare così, in maniera un po’ economica, di Dio, parlando di soldi, di guadagni, di banche, soprattutto in questo tempo di crisi, dove i soldi spesso mancano e chi ce ne chiede tanti sembra essere sempre un po’ antipatico. Ma qual è effettivamente la ricchezza che Dio mette tra le nostre mani? Quali sono quei talenti che il Signore ci ha donato e che spera con tutto il suo cuore di vederli moltiplicati dal nostro impegno? 
Sicuramente possono essere le cose che siamo capaci di fare: può essere la nostra intelligenza, può essere la nostra capacità in uno sport, in un’arte, nella musica; può essere la nostra bravura nel lavoro che facciamo. Allora dobbiamo impegnarci sempre di più, per andare bene a scuola, per ottenere risultati sempre migliori negli sport che pratichiamo, per avere successi lavorativi sempre nuovi. Insomma: bisogna darsi da fare! 
Ma c’è di più. La ricchezza, i talenti, che Dio mette a nostra disposizione sono anche i doni fondamentali che lui ci ha fatto. 
Vorrei ricordarne solo tre. 
Il primo tra tutti è il dono della vita. Una vita che non può essere noiosa: e se è noiosa vuol dire che c’è qualcosa che non va! Vuol dire che ci dobbiamo impegnare a vivere di più, perché fino a quel momento non lo abbiamo fatto abbastanza. La noia ci insegna come la spia delle automobili, che la nostra vita è in riserva, che ci serve altro carburante, che ci serve più vita. Di fronte alla noia possiamo stare ad aspettare, come il servo pigro, un po’ impauriti, oppure darci da fare, come i servi buoni e fedeli. 
Il secondo è il dono della fede. Una fede che non può essere come un bel vestito, da indossare solo la domenica mattina, e che quindi va custodito con cura, come quel talento sotterrato per paura, una fede che deve sporcarsi con la nostra vita; o come il pigiama che si mette la sera prima di andare a letto e viviamo la nostra notte nascosti sotto le coperte. Il dono della fede può e deve essere quel dono che ci permette di vedere e di comprendere tutta la vita in ogni suo momento in maniera più semplice, non solo con la testa, ma soprattutto con il cuore. 
E il terzo dono che il Signore ci fa è proprio un cuore capace di amare come Lui. Il cuore di ogni bambino, di ogni ragazzo, di ogni uomo e donna è capace di amare come Dio, e la prova vivente è proprio Gesù, che è uomo come noi e ci insegna, perché è Figlio, ad amare come sa amare solo il Padre, fino alla fine, fino a dare la vita. 
E allora, Signore, “fa’ che la nostra buona volontà moltiplichi i frutti della tua provvidenza; rendici sempre operosi e vigilanti in attesa del tuo ritorno, nella speranza di sentirci chiamare servi buoni e fedeli, e così entrare nella gioia del tuo regno”.


mercoledì 2 novembre 2011

GOOD ALONE, AMAZING TOGETHER!

Quando passa l’estate e le vacanze lasciano il posto ad un nuovo anno lavorativo, ci prende spesso un sentimento, che sa un poco di tristezza e un poco di nostalgia. Quando passa l’estate e il caldo di quei giorni, si riaprono le ante degli armadi, per recuperare qualche maglione, qualche felpa, una giacca un po’ pesante. E tutti i giorni sembrano un po’ più pesanti. Si dice che la vita riprende il solito “tran-tran”, che tutto torna come prima, che anche la natura si intristisce e pare morire. Le piante perdono le foglie, il cielo diventa grigio, le giornate si accorciano...
I colori sembrano venire meno. 
Ok. Fin qui la parte melanconico-romantica del racconto. Ma la realtà è ben diversa. Almeno per quanto abbiamo potuto vedere, incontrare e vivere. I colori. I colori sono stati i protagonisti di un viaggio durato tre giorni. Destinazione: Firenze. Mete aggiuntive: Barbiana e Loppiano. Un giro toscano per una novantina di ragazzi e ragazze adolescenti, dei primi tre anni di scuola superiore, e per i loro educatori. Un’uscita, un viaggio, un pellegrinaggio. Forse qualcosa in più. Classico, ma non troppo. Una visita caratterizzata dai colori. Li abbiamo notati appena giunti presso Barbiana, mentre salivamo la strada in collina, che porta alla chiesetta di S.Andrea, alla casa-scuola di don Lorenzo Milani e al piccolo cimitero in cui il corpo di questo prete geniale riposa. Colori vivi, colori accesi, di piante, di cielo, di natura. Son colori visibili ad occhio nudo, ma non solo. Oltre all’apparenza delle foglie, abbiamo scorto le sfumature dei racconti di Michele, ex alunno della scuola di Barbiana. Sfumature che sanno di passione, di una vita spesa ad insegnare e ad imparare l’arte del vivere, la bellezza delle parole e la capacità di stare al mondo vivendo appieno la propria libertà. Michele non ha citato direttamente una delle frasi più famose di don Milani (quella di un calcio nel sedere domani per ogni parola sconosciuta oggi), ma durante il racconto della storia di Lucianino, allievo proveniente da una cascina a un’ora e mezza di strada dalla scuola, ci siamo tutti stupiti al sentire quanta fatica un tempo si faceva per non perdere neppure un giorno di scuola, quanta importanza le veniva data dagli alunni (o, come si dice a Barbiana, “creature”), dai genitori e dall’unico insegnante, che era don Lorenzo stesso. “Signor Priore, noi non siamo del suo popolo, noi stiamo dall’altra parte del monte, ma vorrei chiederLe di poter mandare nostro figlio alla sua scuola, perché non voglio che Lucianino rimanga tra noi meschini, capaci soltanto di fare l’”o” col fondo dei bicchieri”. Queste le parole di una madre, della madre di Lucianino, che chiedono a don Milani di prendere nella sua piccola scuola anche suo figlio, perché non rimanesse nell’ignoranza meschina e buia, perché crescesse imparando la bellezza dei colori della vita.
A protezione di quella scuola, come patrono di ogni studente, un santo monachello (Santo Scolaro) col libro di fronte al volto per far si che ogni studente possa immedesimarsi in lui, rappresentato in un mosaico di vetro. Bello, simpatico, colorato! Ci ha accolti poi una città fiorita: Firenze, immersa ancora in un clima tardo estivo, illuminata da un caldo sole che ci ha mostrato le bellezze di questa opera d’arte di città. L’abbiamo attraversata e visitata, a piccoli gruppi, con il sorriso sulle labbra, con la semplicità di un grande gruppo di amici. Qualcuno, incontrandoci, ci ha fatto i complimenti: perché eravamo in tanti (ma questo ha la sua relativa importanza), perché siamo stati educati, ma soprattutto perché siamo apparsi come “persone belle!”. Non so da cosa sia dipeso. Qualcosa, forse, la si è capita durante l’ultima giornata di viaggio, passata a Loppiano. In questa città abbiamo assistito alle testimonianze di numerosi giovani e famiglie appartenenti al movimento dei Focolarini, che hanno scelto di vivere la loro vocazione di cristiani nella forma di una comunione di vita, puntando tutto sull’ideale evangelico dell’essere una cosa sola. La caratteristica di Loppiano è l’internazionalità: fondata una cinquantina di anni fa, è nata dal grande sogno di Chiara Lubich: far nascere un luogo dove persone diverse potessero vivere insieme da fratelli, per mostrare che un mondo diverso può esistere. Ed esiste davvero! La messa di Tutti i Santi, celebrata insieme alla comunità locale, è stato un momento di intensa preghiera: animata dai giovani “Gen”, concelebrata con alcuni sacerdoti del posto, tutti noi ci siamo accorti della grande partecipazione a quel momento, forse anche aiutata dalla bellezza della chiesa in cui abbiamo celebrato l’Eucaristia. Le vetrate colorate, rappresentanti i misteri principali della nostra fede, illuminate dal sole di mezzogiorno, proiettavano su tutti noi i colori più belli. Vere anche per noi, allora, le parole della Lubich, che per spiegare l’esperienza dei Focolari diceva: “Il segreto è quello di aver rischiato la vita per il più grande ideale: Dio!”. Forse questi nostri giorni sono stati un po’ così: “rischiati”. “Rischiati” perché eravamo davvero tanti e quando si è in tanti a volte qualcosa di importante può sfuggire; “rischiati” perché non tutti ci si conosceva e il non conoscersi è spesso il motivo che frena dal vivere nuove esperienze; “rischiati” perché... abbiamo vissuto delle divertenti esperienze di incontri “notturni”. Ma questi, se permettete, rimarranno nostri ricordi. A tutti noi rimangono questi e tanti altri ricordi: i sorrisi, i canti, la semplicità e la simpatia di ragazzi adolescenti, che contrariamente a quanto si dice, hanno voglia di vivere una vita vera e piena; l’impegno dei giovani che regalano la loro vita come educatori; il desiderio di camminare ancora insieme, “rischiando la vita per l’ideale più grande: Dio!”.
E se anche tornando a casa abbiamo trovato la nebbia, il freddo, qualche foglia in meno sugli alberi, non fa nulla: i colori della vita e della fede vissute insieme ci hanno caricati, come in un sogno, fino alla prossima bella stagione.



Bella vita la nostra?
Sì!

domenica 23 ottobre 2011

Trillo - Il trillo è dato per la velocità

Il trillo è dato per la velocità. 
Scrivo questo "trillo" perché è così, nel tempo di un trillo, che ho visto trasformarsi l'umore di tante persone, questa mattina, tra una messa e l'altra. L'umore di tanti ragazzi e i loro occhi. Spaventati. 
Scrivo questo trillo non perché abbia voglia di aggiungere parole ai forse un po' scontati commenti circa l'accaduto. 
Scrivo questo trillo perché a metà pomeriggio un bimbo mi è venuto a cercare e tutto preoccupato mi ha chiesto: "Hai sentito cosa è successo al pilota ricciolino?". Alla mia risposta affermativa ha aggiunto: "Adesso il suo amico Valentino sarà triste e piangerà per tanto tempo". 
Già. 
Scrivo questo trillo perché qualcuno, nel tentare di realizzare il suo sogno, può perdere anche la vita; e penso sia questo il criterio più alto e sacrosanto per definire una passione che, paradossalmente, può far vivere.
Scrivo questo trillo perché al di là di tutto, al di là del fatto che non "tifavo" per lui, la morte oggi ha portato via un altro '87. Scusate se sono un po' orgoglioso di quest'annata e oggi un po' triste. 
Per quello che ho potuto vedere in questi nostri 24 anni, morte e strada son state fin troppe volte alleate. In maniera differente, sicuro. Ma con sempre lo stesso tragico finale a far riflettere e pensare, purtroppo o per fortuna, fin dalla più giovane età, a quel passaggio obbligatorio che tutti ci aspetta e dal quale, "grazie al cielo!", Qualcuno una volta per tutte ci ha già salvato! 

Il trillo è dato per la velocità.
On the road...



QUOTATION: "Vai e insegna agli angeli come si impenna"

giovedì 20 ottobre 2011

"IL RAGAZZO HA TALENTO!"

Il ragazzo ha talento!” 



Ha capito una cosa importante. Ha avuto una intuizione condivisibile e condivisa da molti, messa in pratica, forse, da un po’ di meno. Le parole dette in questa canzone di Niccolò Fabi parlano tanto: nelle immagini belle, simpatiche, leggere. Giovani. Sì, giovani! Senza ideologie o nostalgie. 
Agli adolescenti che ci sono stati affidati. 
A tutti...loro.

Non si può cercare un negozio di antiquariato in via del corso” 
Inutile è cercare una cosa preziosa, la direzione che ti spetta per essere te stesso, in un posto affollatamente caotico. La via del corso, il corso d’opera, il “diem” da cogliere a poco a poco, man mano che si va avanti, quell’importante viaggio che supera la meta.... Che confusione! 

Ogni acquisto ha il suo luogo giusto e non tutte le strade sono un percorso” 
Eccolo, eccolo il cammino! Ecco la meta, ecco la rotta da seguire: un percorso, non una strada, non un’evasione, non un branco, che si eccita di indignazione, non un fuoco da spegnere per aver sbagliato, non mani da mordersi per il rimorso, non rimpianti disillusi o rassegnati “vabbè”! 

Raro è trovare una cosa speciale nelle vetrine di una strada centrale.
Per ogni cosa c'è un posto ma quello della meraviglia è solo un po' più nascosto” 
 Meraviglia, stupore, passione. Voglia di conoscere. Lo diceva già Aristotele: “Prima meravigliati e poi conoscerai!” Cosa speri di trovare e capire se smetti di meravigliarti e di sperare? Troverai te stesso, forse, un po’ più vecchio. 

Il tesoro è alla fine dell'arcobaleno che trovarlo vicino nel proprio letto piace molto di meno” 
Cosa mi chiedi? 
Di capire. 
Che cosa? 
Come fare?
A far che? 
A trovare il tesoro. 
Che cos’hai nello zaino? 
Una tempesta, può bastare? 
Per iniziare, ovvio. 
E poi? 
E poi c’è l’arcobaleno. Ma prima fatica a cercarlo. Fatica a trovarlo. Fatica a crearlo. 

Come cercare l'ombra in un deserto o stupirsi che è difficile incontrarsi in mare aperto. 
Prima di partire si dovrebbe essere sicuri di che cosa si vorrà cercare dei bisogni veri. 
Allora io propongo per non fare confusione a chi ha meno di cinquant'anni 
 di spegnere adesso la televisione” 
Non partire se cerchi quell’ombra a sud. Non salpare se vuoi la compagnia di qualcuno nel mare dell’ovest. Non siamo gli unici a dirti che hai bisogno di una meta, di un sole che ti scaldi, di una polare che ti guidi, di un amore che ti ispiri, di una patria da sognare. Aspetta, fermati, in silenzio. Fai tacere e ascolta! Impara, una buona volta ad ascoltare il silenzio. Sentirai, alla fine di ogni suono, due battiti e una pausa: il tempo dei tuoi ricordi e lo spazio del tuo desiderio. 
Un sogno da realizzare. 

Non si può entrare in un negozio e poi lamentarsi che tutto abbia un prezzo se la vita è un'asta sempre aperta anche i pensieri saranno in offerta” 
Puoi andare lo stesso. Subito. Attento alle scottature e ai colpi di freddo. Le prime ti tolgono la pelle di dosso, anche se a procurarsele ci si diverte un sacco. Le altre, più facili e comuni, ti rallentano e possono intristirti. Non lamentarti: né il caldo né il freddo son male, è come ti ci metti nella vita che può fare la differenza. 

Ma le più lunghe passeggiate le più bianche nevicate e le parole che ti scrivo non so dove l'ho comprate di sicuro le ho cercate senza nessuna fretta” 
Mi sembra una bella assicurazione, no?



Perché l'argento sai si beve ma l'oro si aspetta



sabato 15 ottobre 2011

SORRISI "A GRATIS"

Nei giorni dei festeggiamenti per la mia ordinazione diaconale ho ricevuto numerose lettere e messaggi di auguri. Manifestazioni di affetto scritte, che rimangono come ricordi rileggibili in ogni momento, come faccio spesso in queste sere pensando ai volti e alla storia di queste persone e di cosa sono state nella mia vita. Tra questi biglietti, però, ce n’è uno che ho ritrovato proprio oggi, scritto da persone che non conosco. La busta esternamente è anonima. Dentro due fogli. Uno scritto e un disegno. 
Li riporto entrambi, perché voglio condividere questa bella semplicità che mi ha fatto sorridere...a gratis!

Ciao Andrea, tu non ci conosci ma noi sappiamo che sabato 1 ottobre riceverai l’ordinazione diaconale e il 9 giugno diventerai sacerdote. Siamo bambini di 4a e quest’anno riceveremo nella Messa di prima Comunione il Sacramento dell’Eucarestia. Ci siamo presi l’impegno di pregare per te chiedendo a Dio Padre di aiutarti ad essere sempre testimone del suo grande amore. “Risplenda sempre la tua luce davanti agli uomini”. Chiediamo anche a te di pregare per noi così che Gesù ci possa aiutare ad essere pronti ad incontrarlo nel pane e nel vino consacrati. 
 BUON CAMMINO 
Alessia 
AliceT.


Nella vita, come in matematica, la semplicità risolve un sacco di problemi. 
E ti fa pure sorridere! 


lunedì 3 ottobre 2011

RISPLENDA LA VOSTRA LUCE DAVANTI AGLI UOMINI

Cosa sia successo veramente lo devo ancora capire. Per il momento mi sono accorto che la parola grazie non basta a dire quello che sento per le tante persone che mi sono state vicino la settimana scorsa, sabato mattina, sabato sera e ieri. Non bastano sei lettere per esprimere quello che provo. O forse sì, forse bastano, nel senso che non servono altre parole quando ci si sente voluti così bene e si vuole ricambiare quel bene. Allora: GRAZIE!
Riporto, qui sul blog, il testo di quella specie di tentativo di discorsomeliapredichin-a di sabato sera. L’ho scritto pregando sul testo del Vangelo di Matteo (Mt 5, 13-16), pensando a quello che ho vissuto negli ultimi anni, ri-cordandomi (cioè ri-portando al cuore) tutti i volti delle persone a me più care e che ho incontrato lungo il mio cammino. Sapendo che qualcuno, per causa di forza maggiore e matrimoni vari, non ha avuto l’onore di annoiarsi ad ascoltarmi in diretta, ho voluto dar loro la possibilità di addormentarsi leggendola qui su Diapason. E poi… l’etichetta “da quale pulpito” finalmente potrà essere lecitamente usata, senza problemi di sorta.
Da quale pulpito?
Il mio!

"Risplenda la vostra luce davanti agli uomini"


È questa la frase del vangelo di Matteo, che i miei compagni ed io abbiamo scelto come motto per le nostre ordinazioni, diaconale e presbiterale. È un invito molto forte, che il Signore Gesù rivolge ai suoi discepoli, a tutti i suoi discepoli, cioè a tutti coloro che hanno capito, ad un certo punto della loro vita, che ASCOLTARE quello che Lui ha da dirci, STARE con Lui, INCONTRARLO il più spesso possibile (in una parola: SEGUIRLO), vale veramente la pena. Anzi: può valere veramente TUTTA UNA VITA!
Ci siamo voluti riconoscere in questo invito dopo che, per molti anni, siamo rimasti alla sua scuola, imparando da Lui. Abbiamo imparato tanto, è vero, ma dopo questi cinque anni di Seminario, posso dire  di aver ancora bisogno di tempo, di vita, per imparare sempre più a fare quello che Lui, il Maestro, ci chiede precedendoci sulla croce: Gesù, sulla croce una volta per tutte e nell'Eucaristia OGNI GIORNO, continua ad amarci, donandoci la sua vita, tutta intera!
E così ci insegna LA COSA PIÙ IMPORTANTE, al di là delle tante parole e delle tante teologie imparate: alla domanda "che cos'è l'amore?" (domanda che molti di voi in questi anni mi hanno fatto) la risposta è "dare la vita!", senza risparmiarla per qualche pigrizia o apparente vantaggio personale; perdere la vita, regalarla perché altri possano vivere. Come direbbe (o meglio, ha scritto) qualcuno: "l'amore è dare il sangue".
Ma chi può riuscire in questa impresa se perfino gli amici più intimi di Gesù, (gli amici!...più intimi di Gesù) al momento della verità della loro amicizia, sono TUTTI scappati?
Chi può riuscire a voler bene così, ad AMARE così, quando ci accorgiamo tutti i giorni di non essere capaci di perdonare neppure le persone che si stanno più vicino?

La vita, a volte, sembra essere colorata tutta di NERO, così che spesso non solo ci troviamo incapaci di provare sentimenti buoni nei confronti degli altri, ma addirittura di avere PAURA e di SCAPPARE: scappiamo da NOI STESSI, scappiamo dagli ALTRI, scappiamo dalla REALTÀ in cui viviamo e, alla fine, a furia di scappare da tutto, scappiamo anche da DIO!
Quando Gesù è stato tradito da Giuda e rinnegato tre volte da Pietro era NOTTE. C'era BUIO. Il NERO e le TENEBRE facevano da padroni. E questi discepoli del Maestro di Nazareth non riuscendo a  sopportare tutto questo nero, hanno avuto paura e sono scappati: l'uno facendola finita e l'altro piangendo amaramente per aver rinnegato e tradito il suo migliore amico.
Quando non riusciamo più a voler bene a chi ci sta accanto, allora la vita diventa buia, tenebrosa, come una notte senza stelle e senza luna. Senza più punti di riferimento, senza più LUCE, siamo spenti, annoiati, persi, a volte disperati.
Eppure, in una notte tanto buia, ci possono tornare alla mente le parole di Gesù:
"VOI siete la luce del mondo!"
Sembra strano, fatichiamo a crederGli, ma la fiducia che Dio, che è Padre, ripone in ciascuno di noi è così grande da poterGli far dire, per mezzo di suo Figlio, che NOI siamo la LUCE del mondo.

Noi possiamo essere quella luce che illumina le tante tenebre che avvolgono la vita.
Noi siamo quella luce capace di illuminare l'esistenza di chi ci vuole bene, di chi fa parte della nostra vita, di chiunque incontriamo ogni giorno, per strada, a scuola, al lavoro... .
Noi siamo quella luce, come piace dire a me, NONOSTANTE TUTTO! Sì, nonostante i nostri limiti, nonostante le nostre eterne fragilità, nonostante i nostri errori e peccati.
Noi tutti siamo quella luce di cui il mondo ha bisogno!

NON siamo quella luce, che da pochi giorni sappiamo non essere la più veloce, così invincibile, così perfetta. Perché spesso non siamo i più veloci, non siamo invincibili, né tanto meno siamo gente perfetta!
NON siamo quella "luce artificiale" che abbaglia per illuderci e inganna promettendo successo senza fatica e la fama eterna. Ce ne rendiamo conto sempre di più: chi vive in questo modo non è veramente felice!
NON siamo nemmeno quella luce che acceca i sensi, li stordisce, facendo dimenticare i problemi e la fatica del vivere, come farebbe una droga, come fa la droga!, che fa sballare la vita in un solo momento a prezzo di tutta la libertà!

NOI siamo la luce del mondo perché è Qualcun altro ad illuminarci, come succede alla Luna, che brilla nella notte della luce riflessa del Sole (e questo il nostro amico Vincent lo aveva ben capito!).
NOI siamo il sale della terra perché è Qualcun altro che ci insegna come essere SAPORE per la vita degli altri.
Noi siamo illuminati dalla Sua luce e possiamo far luce non perché siamo i più bravi o i più intelligenti, ma perché siamo TREMENDAMENTE amati da un Dio capace di ABBRONZARCI con il suo amore, del suo amore. Un Dio capace e che vuole regalarci la sua vita, tutta intera, tutti i giorni!
Straordinario!
È questo forse il segreto della nostra luminosità e del nostro essere sapore: non la bravura, non l'intelligenza, non la bellezza di come siamo fatti fuori, ma il continuo BISOGNO di ESSERE amati, di SENTIRCI amati e cercati da un Amore così grande!

Auguri a tutti, per le vostre, nostre, belle e luminose vite!

sabato 24 settembre 2011

VIGILIA


Forse è una leggerezza che arriva dalla libertà di scegliere cosa fare della vita che mi hanno regalato.
Forse è accorgersi che quella cosa che aspetto da dieci anni, ora, finalmente, sta arrivando.
Forse è vedere mamma e papà così emozionati.
Forse è una mano forte, quella mano a cui mi sono sempre aggrappato e affidato, che ora più che mai mi sostiene.
Forse è l'accompagnamento di tanti sorrisi e preghiere, che non manca di rendermi forte.
Forse sono gli amici, che continuano ad esserci: quelli in carne ed ossa e quelli non proprio a me prossimi. 
Forse è capire, ancora una volta in ritardo, quanto sia vero il Vangelo. 
Forse è scoprire la bellezza del sentirsi cercati, amati e perdonati da Qualcuno di veramente grande.
Forse è la bellezza del per-donare "a gratis", senza avere nulla in cambio. 
Forse è la bellezza di quegli uomini straordinari, che sono i santi, che con la loro vita piena mi hanno sempre commosso e hanno suscitato in me il desiderio di imitarli (raro caso in cui copiare è lecito e consigliato!).
Forse ogni cosa parla della bellezza di una vita così, spesa, donata, regalata.
Forse ogni cosa è illuminata dalla Luce. E noi cercheremo di farla brillare il più possibile.

"Cosa fai nella vita?"
"La regalo agli altri".

Sì, son proprio felice! 


venerdì 16 settembre 2011

Trillo - Mi pare d’essere veramente un “minus habens”


"Il desiderio della perfezione è un grado della perfezione stessa, quindi coraggio e avanti con fiducia nella grande ascesa. Nel caso ch’io ti rimanessi addietro non mi disprezzare. Non sono ancora in salita, ma nutro ogni giorno desiderio di salire, di migliorare, di essere meno cattivo; è appunto per questo che mi sono fatto missionario ed è per questo che godo della mia fatica e desidero raccogliere, raccogliere gente a Dio, per riparare e purificarmi. Spesso pensando a quel che sono mi pare d’essere veramente un “minus habens”, un “minorato nella vita spirituale” ed ho compassione io stesso di me stesso. Mi sembra poi un’ironia fine quelli che mi scrivono: “Oh, lei è missionario, lei ha donato tutto, lei va in paradiso dritto come un fuso…”. Poverini! Iddio perdoni, siamo tanto distanti, non vedono nulla e credono chissà cosa. Credimelo, io pure ho da combattere ogni giorno con me stesso, ed a volte vinco ed a volte perdo. Una vera altalena, a volte mi gonfio come un pallone, alle volte sono spremuto come un limoncino".
C. Vismara, Lettere dalla Birmania 

E se lo ha da dire un santo di se stesso, non potrò dirlo io di me?

martedì 13 settembre 2011

LA FINE E IL FINE

Arrivo con un giorno di ritardo a commentare ciò che per una buona parte della popolazione è cominciato ieri: l’inizio della scuola. Ho letto qua e là sulle bacheche del facebook molti countdown fatti partire già dal primo giorno di scuola. Uno in particolare mi ha fatto sorridere e riflettere. 
Scrive A., 17 anni: “primo giorno andato…dai, ne mancano solo 199”. 
Deve essere una bella ansia quella che anima molti studenti oppure una certa delusione a priori rispetto a quello che vivranno. Nove mesi di “comunità forzata” nella quale saranno continuamente messi alla prova, per vedersi rifilare un numero, possibilmente maggiore o uguale a sei, che determinerà la serenità della prossima estate o un grande senso di fallimento esistenziale. Perché è vero che la scuola non è tutto nella vita, ma è anche vero che a questi ragazzi la scuola “porta via” un sacco di tempo. Per questo a molti la scuola non piace, perché si presenta come una ladra, che rapisce la vita, ruba quell’idea di libertà che l’estate aveva facilmente regalato e appiccica un numero che dice quanto si vale: poco più o poco meno di un sei. Ecco perché ai ragazzi sembra più facile e bello pensare alla fine della scuola e non al fine di questa. Pensare al fine di qualcosa porta a chiedersi il perché. Perché vado a scuola? Perché le cose che mi vengono trasmesse dovrebbero servirmi? Perché le cose che imparo sono importanti per la mia vita? Ci sono dei perché più importanti di questi, non lo metto in dubbio. Ma per allenarsi a farsi le domande giuste (che è il segreto per incominciare a capire perché siamo al mondo) occorre conoscere chi prima di noi si è chiesto quel “perché”, in tutti gli ambiti, scientifici e umanistici, artistici e tecnici, e a quali risposte sono arrivati tutti coloro che ci hanno preceduto nella storia. Continuare a chiedersi il fine dell’andare a scuola, magari chiedendo aiuto a chi è più grande e ai professori stessi per cercare di darsi una risposta, può permettere, a mio modesto avviso, di passare quei duecento giorni un po’ più serenamente, con la voglia di capirci qualcosa in più di questo mondo, di ciò che lo fa “funzionare” e di accorgersi con meraviglia di quanto sia bella la vita. 

Ecco cosa mi hanno trasmesso i miei insegnanti: l’importanza di fare le domande giuste, l’entusiasmo nel ricercare il fine e il “perché” delle cose e lo stupore di vivere questa (e non un’altra) bella vita. 
Buon anno, a voi gabbianelle e a quei gatti che vi insegneranno a volare!

mercoledì 10 agosto 2011

LE STELLE IN CIELO ovvero IL BISOGNO DI CONTINUARE A DESIDERARE



Per molti il grande desiderio di questa sera è riuscire a vedere almeno una “stella” cadente. Perché le persone continuano a desiderare e, nonostante la loro più o meno affermata incredulità, continuano ad aver bisogno del Cielo e a sperare che da quel Cielo arrivi qualcosa di buono.
Oltre ventotto secoli fa, un uomo di nome Isaia, scriveva su un rotolo di pergamena:

Così dice il Signore Dio che ti ha creato:
«Non temere, perché io ti ho riscattato,
ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni.
Se dovrai attraversare le acque, sarò con te,
i fiumi non ti sommergeranno;
se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai,
la fiamma non ti potrà bruciare,
poiché io sono il Signore, tuo Dio, il Santo d’Israele, il tuo salvatore.
Io do l’Egitto come prezzo per il tuo riscatto, l’Etiopia e Seba al tuo posto.
Perché tu sei prezioso ai miei occhi,
perché sei degno di stima e io ti amo,
do uomini al tuo posto e nazioni in cambio della tua vita.
Non temere, perché io sono con te

Quest’uomo di mestiere faceva il profeta. Non uno di quei sedicenti indovini e preannunciatori di futuro. Non guardava il cielo per sapere cosa sarebbe successo. Isaia non era un astrologo e il cielo, invece di guardarlo con gli occhi, lo ascoltava il cuore.
È il cuore la bocca capace di esprimere i desideri più veri e profondi; è il cuore l’orecchio in grado di ascoltare quella parola di bene che Dio ha per ognuno dei suoi figli. Ognuno. Tutti. Nessuno escluso. Nemmeno chi teme di essere escluso dalla sua bontà: Lui ci chiama per nome. Nemmeno chi teme la schiavitù dell’abitudine, della noia, dell’infelicità, dell’insoddisfazione, del “male di vivere”, che pare essere piaga ben più severa di quelle egizie. Nemmeno chi vive nell’ombra più oscura, nell’abisso più profondo può disperare di sentirsi dire: “Tu sei prezioso ai miei occhi! Così prezioso da avere per te tutto un universo di stelle, un’infinita possibilità di desideri”.
C’è chi desidera ascoltare parole come queste. C’è chi ha bisogno di ascoltare parole come queste, semplicemente per ricordarsi d’essere prezioso, importante.
Se non per molti, comunque per Dio!

Leggendo le parole di molti questa sera, mi sembra di vedere non tanto il bisogno di qualcosa, di un desiderio preciso e coltivato, piuttosto il bisogno stesso di desiderare, come se il cuore, quell’orecchio e bocca benedetti, non fosse più capace di farlo, impaurito o paralizzato da non si sa quali motivazioni. Non più capace di ascoltare le parole che vengono dal cielo. Non più bisognoso di parlare a quel cielo con fiducia e speranza.
Mi ricordo allora di un racconto, ascoltato per la prima volta lungo una strada, da un’attrice che recitava per un gruppo di giovani.
È la storia di Stefano e della sua vita. La riporto per intera, perché merita di essere letta, magari prima di uscire in questa notte così limpida a guardare questo cielo, ancora capace di parlare e di farsi ascoltare per il semplice nostro bene.


Quando Stefano Roi compì i dodici anni, chiese in regalo a suo padre, capitano di mare e padrone di un bel veliero, che lo portasse con sé a bordo.
«Quando sarò grande» disse «voglio andar per mare come te. E comanderò delle navi ancora più belle e grandi della tua».
«Che Dio ti benedica, figliolo» rispose il padre. E siccome proprio quel giorno il suo bastimento doveva partire, portò il ragazzo con sé.
Era una giornata splendida di sole; e il mare tranquillo. Stefano, che non era mai stato sulla nave, girava felice in coperta, ammirando le complicate manovre delle vele. E chiedeva di questo e di quello ai marinai che, sorridendo, gli davano tutte le spiegazioni. Come fu giunto a poppa, il ragazzo si fermò, incuriosito, a osservare una cosa che spuntava a intermittenza in superficie, a distanza di due-trecento metri, in corrispondenza della scia della nave. Benché il bastimento già volasse, portato da un magnifico vento al giardinetto, quella cosa manteneva sempre la distanza. E, sebbene egli non ne comprendesse la natura, aveva qualcosa di indefinibile, che lo attraeva intensamente. Il padre, non vedendo Stefano più in giro, dopo averlo chiamato a gran voce invano, scese dalla plancia e andò a cercarlo.
«Stefano, che cosa fai lì impalato?» gli chiese scorgendolo infine a poppa, in piedi, che fissava le onde.
«Papà, vieni qui a vedere».
Il padre venne e guardò anche lui, nella direzione indicata dal ragazzo, ma non riuscì a vedere niente.
«C'è una cosa scura che spunta ogni tanto dalla scia» disse «e che ci viene dietro».
«Nonostante i miei quarant'anni» disse il padre «credo di avere ancora una vista buona. Ma non vedo assolutamente niente».
Poiché il figlio insisteva, andò a prendere il cannocchiale e scrutò la superficie del mare, in corrispondenza della scia. Stefano lo vide impallidire.
«Cos'è? Perché fai quella faccia?»
«Oh, non ti avessi ascoltato» esclamò il capitano. «Io adesso temo per te. Quella cosa che tu vedi spuntare dalle acque e che ci segue, non è una cosa. Quello è un colombre. È il pesce che i marinai sopra tutti temono, in ogni mare del mondo. È uno squalo tremendo e misterioso, più astuto dell'uomo. Per motivi che forse nessuno saprà mai, sceglie la sua vittima, e quando l'ha scelta la insegue per anni e anni, per una intera vita, finché è riuscito a divorarla. E lo strano è questo: che nessuno riesce a scorgerlo se non la vittima stessa e le persone del suo stesso sangue»
«Non è una favola?»
«No. Io non l'avevo mai visto. Ma dalle descrizioni che ho sentito fare tante volte, l'ho subito riconosciuto. Quel muso da bisonte, quella bocca che continuamente si apre e chiude, quei denti terribili. Stefano, non c'è dubbio, purtroppo, il colombre ha scelto te e finché tu andrai per mare non ti darà pace. Ascoltami: ora noi torniamo subito a terra, tu sbarcherai e non ti staccherai mai più dalla riva, per nessuna ragione al mondo. Me lo devi promettere. Il mestiere del mare non è per te, figliolo. Devi rassegnarti. Del resto, anche a terra potrai fare fortuna».
Ciò detto, fece immediatamente invertire la rotta, rientrò in porto e, col pretesto di un improvviso malessere, sbarcò il figliolo. Quindi ripartì senza di lui. Profondamente turbato, il ragazzo restò sulla riva finché l'ultimo picco dell'alberatura sprofondò dietro l'orizzonte. Di là dal molo che chiudeva il porto, il mare restò completamente deserto. Ma, aguzzando gli sguardi, Stefano riuscì a scorgere un puntino nero che affiorava a intermittenza dalle acque: il "suo" colombre, che incrociava lentamente su e giù, ostinato ad aspettarlo.
Da allora il ragazzo con ogni espediente fu distolto dal desiderio del mare. Il padre lo mandò a studiare in una città dell'interno, lontana centinaia di chilometri. E per qualche tempo, distratto dal nuovo ambiente, Stefano non pensò più al mostro marino. Tuttavia, per le vacanze estive, tornò a casa e per prima cosa, appena ebbe un minuto libero, si affrettò a raggiungere l'estremità del molo, per una specie di controllo, benché in fondo lo ritenesse superfluo. Dopo tanto tempo, il colombre, ammesso anche che tutta la storia narratagli dal padre fosse vera, aveva certo rinunciato all'assedio. Ma Stefano rimase là, attonito, col cuore che gli batteva. A distanza di due-trecento metri dal molo, nell'aperto mare, il sinistro pesce andava su e giú, lentamente, ogni
tanto sollevando il muso dall'acqua e volgendolo a terra, quasi con ansia guardasse se Stefano Roi finalmente veniva. Così, l'idea di quella creatura nemica che lo aspettava giorno e notte divenne per Stefano una segreta ossessione. E anche nella lontana città gli capitava di svegliarsi in piena notte con inquietudine. Egli era al sicuro, sì, centinaia di chilometri lo separavano dal colombre. Eppure egli sapeva che, di là dalle montagne, di là dai boschi, di là dalle pianure, lo squalo era ad aspettarlo. E, si fosse egli trasferito pure nel più remoto continente, ancora il colombre si sarebbe appostato nello specchio di mare più vicino, con l'inesorabile ostinazione che hanno gli strumenti del fato.
Stefano, ch'era un ragazzo serio e volonteroso, continuò con profitto gli studi e, appena fu uomo, trovò un impiego dignitoso e rimunerativo in un emporio di quella città. Intanto il padre venne a morire per malattia, il suo magnifico veliero fu dalla vedova venduto e il figlio si trovò ad essere erede di una discreta fortuna. Il lavoro, le amicizie, gli svaghi, i primi amori: Stefano si era ormai fatto la sua vita, ciononostante il pensiero del colombre lo assillava come un funesto e insieme affascinante miraggio; e, passando i giorni, anziché svanire, sembrava farsi più insistente.
Grandi sono le soddisfazioni di una vita laboriosa, agiata e tranquilla, ma ancora più grande è l'attrazione dell'abisso. Aveva appena ventidue anni Stefano, quando, salutati gli amici della città e licenziatosi dall'impiego, tornò alla città natale e comunicò alla mamma la ferma intenzione di seguire il mestiere paterno. La donna, a cui Stefano non aveva mai fatto parola del misterioso squalo, accolse con gioia la sua decisione. L'avere il figlio abbandonato il mare per la città le era sempre sembrato, in cuor suo, un tradimento alle tradizioni di famiglia. E Stefano cominciò a navigare, dando prova di qualità marinare, di resistenza alle fatiche, di animo intrepido. Navigava, navigava, e sulla scia del suo bastimento, di giorno e di notte, con la bonaccia e con la tempesta, arrancava il colombre. Egli sapeva che quella era la sua maledizione e la sua condanna, ma proprio per questo, forse, non trovava la forza di staccarsene. E nessuno a bordo scorgeva il mostro, tranne lui.
«Non vedete niente da quella parte?» chiedeva di quando in quando ai compagni, indicando la scia.
«No, noi non vediamo proprio niente. Perché?»
«Non so. Mi pareva...»
«Non avrai mica visto per caso un colombre» facevano quelli, ridendo e toccando ferro.
«Perché ridete? Perché toccate ferro? »
«Perché il colombre è una bestia che non perdona. E se si mettesse a seguire questa nave, vorrebbe dire che uno di noi è perduto».
Ma Stefano non mollava. La ininterrotta minaccia che lo incalzava pareva anzi moltiplicare la sua volontà, la sua passione per il mare, il suo ardimento nelle ore di lotta e di pericolo.
Con la piccola sostanza lasciatagli dal padre, come egli si sentì padrone del mestiere, acquistò con un socio un piccolo piroscafo da carico, quindi ne divenne il solo proprietario e, grazie a una serie di fortunate spedizioni, poté in seguito acquistare un mercantile sul serio, avviandosi a traguardi sempre più ambiziosi. Ma i successi, e i milioni, non servivano a togliergli dall'animo quel continuo assillo; né mai, d'altra parte, egli fu tentato di vendere la nave e di ritirarsi a terra per intraprendere diverse imprese. Navigare, navigare, era il suo unico pensiero. Non appena, dopo lunghi tragitti, metteva piede a terra in qualche porto, subito lo pungeva l'impazienza di ripartire. Sapeva che fuori c'era il colombre ad aspettarlo, e che il colombre era sinonimo di rovina. Niente.
Un indomabile impulso lo traeva senza requie, da un oceano all'altro. Finché, all'improvviso, Stefano un giorno si accorse di essere diventato vecchio, vecchissimo; e nessuno intorno a lui sapeva spiegarsi perché, ricco com’era, non lasciasse finalmente la dannata vita del mare. Vecchio, e amaramente infelice, perché l’intera esistenza sua era stata spesa in quella specie di pazzesca fuga attraverso i mari, per sfuggire al nemico. Ma più grande che le gioie di una vita agiata e tranquilla era stata per lui sempre la tentazione dell'abisso.
E una sera, mentre la sua magnifica nave era ancorata al largo del porto dove era nato, si sentì prossimo a morire. Allora chiamò il secondo ufficiale, di cui aveva grande fiducia, e gli ingiunse di non opporsi a ciò che egli stava per fare. L'altro, sull'onore, promise. Avuta questa assicurazione, Stefano, al secondo ufficiale che lo ascoltava sgomento, rivelò la storia del colombre, che aveva continuato a inseguirlo per quasi cinquant'anni, inutilmente.
«Mi ha scortato da un capo all'altro del mondo» disse «con una fedeltà che neppure il più nobile amico avrebbe potuto dimostrare. Adesso io sto per morire. Anche lui, ormai, sarà terribilmente vecchio e stanco. Non posso tradirlo».
Ciò detto, prese commiato, fece calare in mare un barchino e vi sali, dopo essersi fatto dare un arpione.
«Ora gli vado incontro» annunciò. «È giusto che non lo deluda. Ma lotterò, con le mie ultime forze».
A stanchi colpi di remi, si allontanò da bordo. Ufficiali e marinai lo videro scomparire laggiù, sul placido mare, avvolto dalle ombre della notte. C'era in cielo una falce di luna. Non dovette faticare molto. All'improvviso il muso orribile del colombre emerse di fianco alla barca.
«Eccomi a te, finalmente » disse Stefano. «Adesso, a noi due!»
E, raccogliendo le superstiti energie, alzò l'arpione per colpire.
«Uh» mugolò con voce supplichevole il colombre «che lunga strada per trovarti. Anch'io sono distrutto dalla fatica. Quanto mi hai fatto nuotare. E tu fuggivi, fuggivi. E non hai mai capito niente».
«Perché?» fece Stefano, punto sul vivo.
«Perché non ti ho inseguito attraverso il mondo per divorarti, come pensavi. Dal re del mare avevo avuto soltanto l'incarico di consegnarti questo».
E lo squalo trasse fuori la lingua, porgendo al vecchio capitano una piccola sfera fosforescente. Stefano la prese fra le dita e guardò. Era una perla di grandezza spropositata. E lui riconobbe la famosa Perla del Mare che dà, a chi la possiede, fortuna, potenza, amore, e pace dell'animo. Ma era ormai troppo tardi.
«Ahimè!» disse scuotendo tristemente il capo.
«Come è tutto sbagliato. Io sono riuscito a dannare la mia esistenza: e ho rovinato la tua».
«Addio, pover'uomo» rispose il colombre. E sprofondò nelle acque nere per sempre.

Due mesi dopo, spinto dalla risacca, un barchino approdò a una dirupata scogliera. Fu avvistato da alcuni pescatori che, incuriositi, si avvicinarono. Sul barchino, ancora seduto, stava un bianco scheletro: e fra le ossicine delle dita stringeva un piccolo sasso rotondo.

Il colombre è un pesce di grandi dimensioni, spaventoso a vedersi, estremamente raro.
A seconda dei mari, e delle genti che ne abitano le rive, viene anche chiamato kolomber, kahloubrha, kalonga, kalu-balu, chalung-gra. I naturalisti stranamente lo ignorano.
Qualcuno perfino sostiene che non esiste.

Il colombre, da Il colombre di Dino Buzzati