venerdì 25 novembre 2011

IMPROVVISO

Progettare e programmare sono due azioni molto importanti. Aiutano a fare meglio le “cose”, a lavorare meglio, a pensare il futuro, a non trovarsi impreparati davanti agli imprevisti di ogni giorno. 
Progettare e programmare richiedono molto tempo, molta pazienza, un po’ di entusiasmo; allenamento alla fatica, anche al ritorno abitudinario di qualcosa che passa, puntuale, come un tram (puntuale?). 
Progettare e programmare obbligano chi lo fa ad appassionarsi al motivo per cui ci si siede attorno a un tavolo e si pensa, meglio insieme ad altre persone, iniziando brainstorming orali o scritti, chiacchierando delle persone, delle idee, delle vite. 
Progettare e programmare sono nemici della noia, della fretta, del “facile”. Progettare e programmare sono per chi vuole vivere una vita semplice, dove la semplicità passa attraverso l’azione. Un’azione progettata e programmata. Ho sempre raccomandato a quelle belle persone che il Cielo mi ha messo sulla strada (per aiutarci insieme ad educare le piccole vite che ci sono affidate) l’importanza di non essere ingenui improvvisatori o leggere e brillanti, magari al momento abili, copert-ine. Meglio "perdere" qualche volta tempo in più che perdere per sempre vite e occasioni.
Ma fino adesso non ho di che lamentarmi.




Chi accompagna la vita degli altri non può limitarsi ad improvvisare: anche i migliori jazzisti non suonano note a caso!


domenica 20 novembre 2011

FELICI E CONTENTI

Primo articolo della Costituzione italiana: "L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione".
L'Italia è dunque una repubblica e a decidere come devono andare le cose dovrebbe essere il popolo, l'insieme cioè di tutti i cittadini italiani. 
Ci sono poi alcune nazioni, che non sono governate da una repubblica. In alcuni stati, anche vicini a noi, vige da tanti anni una monarchia, dove il potere è più o meno esercitato da un monarca, cioè da un re.
Quando noi "repubblicani" pensiamo ad un re, ce lo possiamo immaginare all'interno del suo palazzo, circondato da tante persone che lo servono e lo riconoscono come il capo assoluto. 
Conosciamo i re delle favole, quelli che permettono di finire la storia "tutti felici e contenti". 
Guardando la tv, qualcuno si sarà anche emozionato quando il futuro re di Inghilterra si è sposato con la sua principessa. E ci capita di sentire sempre tanti pettegolezzi sulla vita dei re di questa terra. 
A volte, qualche re diventa pazzo, e invece di governare con saggezza il suo popolo, si trasforma in un tiranno e obbliga i suoi sudditi a vivere nella paura e nella povertà, spesso in situazioni di guerra, quasi sempre senza libertà. 
Oggi, noi cristiani, celebriamo la Solennità di Gesù Cristo, Re dell'Universo. 
Anche per il nostro re si fa una grande festa. 
Ma a chi facciamo festa oggi? A un re vanitoso? A un re dittatore? A un re come quello delle favole? Che tipo di re è Gesù?
Le letture che abbiamo ascoltato ci aiutano a capirlo un po’. Il profeta Ezechiele, in una delle sue particolari profezie, parla a nome del Signore e ci racconta come Dio stesso si comporta con il suo popolo: un Dio che ha cura di tutti gli uomini, come un pastore ha cura di tutte le sue pecore, le conosce una ad una, le cerca personalmente. Un Dio che di mestiere fa il pastore, che si dà un sacco da fare per le sue pecore perché le ama, con tutto se stesso e non fa mancare loro mai nulla. Un pastore così premuroso ogni pecora (se capisse) lo vorrebbe avere! Un pastore che non è solo un uomo buono, ma è Dio stesso che si fa uomo e si fa pastore, mettendosi al servizio della nostra vita. Così che, anche se “per mezzo di un uomo venne la morte”, e anche se ci sono un’infinità di motivi che non ci fanno percepire la bontà e la bellezza della vita, e della vita come figli di Dio, siamo certi, nella fede, che “per mezzo di un uomo” tutti riceveranno la vita. 
Come si fa, allora, ad accogliere questa vita, la vita di Dio, che ci viene regalata, come un pastore regala la sua vita per le pecore? 
Come si fa ad accorgersi che la vita eterna inizia adesso, qui, sulla terra, ora, in questo preciso istante? Come si fa a chiamare “Re dell’Universo” un uomo, che ha per trono la croce della sua condanna a morte? 
Il Vangelo, come sempre, è più chiaro di ogni parola umana e di ogni tentativo di spiegazione. 
Quando il Signore Gesù verrà, e siederà sul trono della sua gloria dirà a tutti gli uomini: 
Ho avuto fame”: ad alcuni dirà: “voi mi avete dato da mangiare”; ad altri dirà: “voi no!”.
Ho avuto sete”: ad alcuni dirà: “voi mi avete dato da bere”; ad altri dirà: “voi no!”.
Ero straniero”: ad alcuni dirà: “voi mi avete accolto, in casa vostra, come vostro fratello”; ad altri dirà: “voi no, mi avete cacciato via, come si caccia via un animale pericoloso, che fa paura”. 
Ero nudo”: ad alcuni dirà: “voi mi avete vestito, non con abiti che altri hanno scartato, non con vestiti vecchi, rotti, che a voi non servivano più, ma con gli abiti più belli che avevate”; ad altri dirà invece: “voi no, vi siete accontentati di darmi quello che vi avanzava”.
Ero malato”: ad alcuni dirà: “voi mi avete visitato e con la vostra presenza avete reso più leggero il tempo della mia malattia”; ad altri dirà: “voi no, eravate così preoccupati delle vostre faccende, da non accorgervi neanche che ero malato!”.
Ero in carcere”: ad alcuni dirà: “grazie, perché siete venuti a trovarmi e nonostante i miei errori e i miei sbagli, continuate ad avere fiducia in me”; ad altri dirà “voi no, perché non avete creduto in me e i miei errori e i miei sbagli sono diventati l’unica cosa che vede di me!”.
Allora gli uni e gli altri chiederanno, stupiti o preoccupati: “Ma Signore, quando mai è successo tutto ciò? Quando sei stato affamato, assettato, straniero, nudo, malato, in carcere...?”.
Oggi, come allora, la risposta sembra essere ancora la stessa.


Fermandoci bene a riflettere, forse, il Vangelo è ancora capace di farci diventare un po’ più buoni, un po’ più umani, un po’ più figli, un po’ più fratelli. 
Ecco il nostro Re: un re che ci dona la vita perché possiamo gustare la bontà della sua vita e la bellezza di essere fratelli tra di noi e figli di un unico Padre. 
Solo così, da figli e fratelli, potremo allora dire di vivere per sempre "felici e contenti!". 

domenica 13 novembre 2011

TIEPIDAMENTE IN RISERVA

La parola “vangelo” deriva da un termine greco che tradotto in italiano vuol dire “buona notizia”, si sa, e ci sono anche tanti altri sinonimi, che ci fanno comprendere di cosa parliamo quando parliamo di vangelo: una buona notizia, un annuncio di speranza, un annuncio di gioia, delle parole belle, dei racconti che parlano di felicità e vita eterna, cioè di vita vera, di una vita che ci aspetta dopo le fatiche della nostra esistenza. 
Il vangelo è formato da una serie di racconti, di discorsi, di vicende che riguardano Gesù di Nazareth, la sua vita, la sua morte, la sua risurrezione, e a noi cristiani è chiesto dallo stesso Gesù non solo di venire a conoscenza di quanto lui ha fatto, non solo di sapere cosa sia successo duemila anni fa in Palestina, ma di vivere quanto Lui ci ha detto, per non rischiare di sprecare la nostra vita terrena e perdere di vista la cosa più importante: amare Dio come un Padre e tutti gli uomini come nostri fratelli. 
Eppure c'è qualche pagina del vangelo, che non sembra molto simpatica, che cerca di spiegare chi sia Dio in un modo un po’ strano, parlandoci, ad esempio, di un padrone che appare come un uomo duro, che miete dove non semina e raccoglie dove non ha sparso. Un uomo, insomma, che pretende tanto, anche troppo, dai suoi servi! E lo fa senza troppi problemi, senza chiedersi se sia giusto o meno, giudicando i suoi servi solamente da quanto sono stati capaci di fare. 
Perché Gesù racconta questa parabola? Perché Gesù ci presenta un’immagine di Dio così forte, che fa quasi paura? Se ci ha già detto in altre pagine del Vangelo che Dio è un padre disposto a perdonare, perché ora ce lo descrive come un padrone severo quasi che fosse un giudice ingiusto? 
Ci sono sicuramente due comportamenti diversi da parte del padrone: quello con i servi buoni e fedeli e quello con il servo malvagio e pigro. Due comportamenti diversi perché diversamente si sono comportati i primi due servi e il terzo: il primo servo è stato capace di raddoppiare la ricchezza che gli era stata affidata e passa da cinque a dieci talenti. Anche il secondo servo è stato capace di far guadagnare il suo padrone, raddoppiando quanto gli era stato dato. Il problema sorge quando si presenta il terzo servo: un talento affidato, un solo talento restituito. E il guadagno è pari a zero! 
Questi servi hanno avuto la possibilità di tenere tra le mani le grandi ricchezze del loro padrone: ognuno secondo la sua capacità, secondo le sue possibilità. Il padrone, che si è fidato ciecamente di quei suoi servi, potrà allora avere o no il diritto di provare piacere nel vedere aumentata la sua ricchezza e ad arrabbiarsi di fronte al servo pigro? 
Forse ci dà fastidio sentire parlare così, in maniera un po’ economica, di Dio, parlando di soldi, di guadagni, di banche, soprattutto in questo tempo di crisi, dove i soldi spesso mancano e chi ce ne chiede tanti sembra essere sempre un po’ antipatico. Ma qual è effettivamente la ricchezza che Dio mette tra le nostre mani? Quali sono quei talenti che il Signore ci ha donato e che spera con tutto il suo cuore di vederli moltiplicati dal nostro impegno? 
Sicuramente possono essere le cose che siamo capaci di fare: può essere la nostra intelligenza, può essere la nostra capacità in uno sport, in un’arte, nella musica; può essere la nostra bravura nel lavoro che facciamo. Allora dobbiamo impegnarci sempre di più, per andare bene a scuola, per ottenere risultati sempre migliori negli sport che pratichiamo, per avere successi lavorativi sempre nuovi. Insomma: bisogna darsi da fare! 
Ma c’è di più. La ricchezza, i talenti, che Dio mette a nostra disposizione sono anche i doni fondamentali che lui ci ha fatto. 
Vorrei ricordarne solo tre. 
Il primo tra tutti è il dono della vita. Una vita che non può essere noiosa: e se è noiosa vuol dire che c’è qualcosa che non va! Vuol dire che ci dobbiamo impegnare a vivere di più, perché fino a quel momento non lo abbiamo fatto abbastanza. La noia ci insegna come la spia delle automobili, che la nostra vita è in riserva, che ci serve altro carburante, che ci serve più vita. Di fronte alla noia possiamo stare ad aspettare, come il servo pigro, un po’ impauriti, oppure darci da fare, come i servi buoni e fedeli. 
Il secondo è il dono della fede. Una fede che non può essere come un bel vestito, da indossare solo la domenica mattina, e che quindi va custodito con cura, come quel talento sotterrato per paura, una fede che deve sporcarsi con la nostra vita; o come il pigiama che si mette la sera prima di andare a letto e viviamo la nostra notte nascosti sotto le coperte. Il dono della fede può e deve essere quel dono che ci permette di vedere e di comprendere tutta la vita in ogni suo momento in maniera più semplice, non solo con la testa, ma soprattutto con il cuore. 
E il terzo dono che il Signore ci fa è proprio un cuore capace di amare come Lui. Il cuore di ogni bambino, di ogni ragazzo, di ogni uomo e donna è capace di amare come Dio, e la prova vivente è proprio Gesù, che è uomo come noi e ci insegna, perché è Figlio, ad amare come sa amare solo il Padre, fino alla fine, fino a dare la vita. 
E allora, Signore, “fa’ che la nostra buona volontà moltiplichi i frutti della tua provvidenza; rendici sempre operosi e vigilanti in attesa del tuo ritorno, nella speranza di sentirci chiamare servi buoni e fedeli, e così entrare nella gioia del tuo regno”.


mercoledì 2 novembre 2011

GOOD ALONE, AMAZING TOGETHER!

Quando passa l’estate e le vacanze lasciano il posto ad un nuovo anno lavorativo, ci prende spesso un sentimento, che sa un poco di tristezza e un poco di nostalgia. Quando passa l’estate e il caldo di quei giorni, si riaprono le ante degli armadi, per recuperare qualche maglione, qualche felpa, una giacca un po’ pesante. E tutti i giorni sembrano un po’ più pesanti. Si dice che la vita riprende il solito “tran-tran”, che tutto torna come prima, che anche la natura si intristisce e pare morire. Le piante perdono le foglie, il cielo diventa grigio, le giornate si accorciano...
I colori sembrano venire meno. 
Ok. Fin qui la parte melanconico-romantica del racconto. Ma la realtà è ben diversa. Almeno per quanto abbiamo potuto vedere, incontrare e vivere. I colori. I colori sono stati i protagonisti di un viaggio durato tre giorni. Destinazione: Firenze. Mete aggiuntive: Barbiana e Loppiano. Un giro toscano per una novantina di ragazzi e ragazze adolescenti, dei primi tre anni di scuola superiore, e per i loro educatori. Un’uscita, un viaggio, un pellegrinaggio. Forse qualcosa in più. Classico, ma non troppo. Una visita caratterizzata dai colori. Li abbiamo notati appena giunti presso Barbiana, mentre salivamo la strada in collina, che porta alla chiesetta di S.Andrea, alla casa-scuola di don Lorenzo Milani e al piccolo cimitero in cui il corpo di questo prete geniale riposa. Colori vivi, colori accesi, di piante, di cielo, di natura. Son colori visibili ad occhio nudo, ma non solo. Oltre all’apparenza delle foglie, abbiamo scorto le sfumature dei racconti di Michele, ex alunno della scuola di Barbiana. Sfumature che sanno di passione, di una vita spesa ad insegnare e ad imparare l’arte del vivere, la bellezza delle parole e la capacità di stare al mondo vivendo appieno la propria libertà. Michele non ha citato direttamente una delle frasi più famose di don Milani (quella di un calcio nel sedere domani per ogni parola sconosciuta oggi), ma durante il racconto della storia di Lucianino, allievo proveniente da una cascina a un’ora e mezza di strada dalla scuola, ci siamo tutti stupiti al sentire quanta fatica un tempo si faceva per non perdere neppure un giorno di scuola, quanta importanza le veniva data dagli alunni (o, come si dice a Barbiana, “creature”), dai genitori e dall’unico insegnante, che era don Lorenzo stesso. “Signor Priore, noi non siamo del suo popolo, noi stiamo dall’altra parte del monte, ma vorrei chiederLe di poter mandare nostro figlio alla sua scuola, perché non voglio che Lucianino rimanga tra noi meschini, capaci soltanto di fare l’”o” col fondo dei bicchieri”. Queste le parole di una madre, della madre di Lucianino, che chiedono a don Milani di prendere nella sua piccola scuola anche suo figlio, perché non rimanesse nell’ignoranza meschina e buia, perché crescesse imparando la bellezza dei colori della vita.
A protezione di quella scuola, come patrono di ogni studente, un santo monachello (Santo Scolaro) col libro di fronte al volto per far si che ogni studente possa immedesimarsi in lui, rappresentato in un mosaico di vetro. Bello, simpatico, colorato! Ci ha accolti poi una città fiorita: Firenze, immersa ancora in un clima tardo estivo, illuminata da un caldo sole che ci ha mostrato le bellezze di questa opera d’arte di città. L’abbiamo attraversata e visitata, a piccoli gruppi, con il sorriso sulle labbra, con la semplicità di un grande gruppo di amici. Qualcuno, incontrandoci, ci ha fatto i complimenti: perché eravamo in tanti (ma questo ha la sua relativa importanza), perché siamo stati educati, ma soprattutto perché siamo apparsi come “persone belle!”. Non so da cosa sia dipeso. Qualcosa, forse, la si è capita durante l’ultima giornata di viaggio, passata a Loppiano. In questa città abbiamo assistito alle testimonianze di numerosi giovani e famiglie appartenenti al movimento dei Focolarini, che hanno scelto di vivere la loro vocazione di cristiani nella forma di una comunione di vita, puntando tutto sull’ideale evangelico dell’essere una cosa sola. La caratteristica di Loppiano è l’internazionalità: fondata una cinquantina di anni fa, è nata dal grande sogno di Chiara Lubich: far nascere un luogo dove persone diverse potessero vivere insieme da fratelli, per mostrare che un mondo diverso può esistere. Ed esiste davvero! La messa di Tutti i Santi, celebrata insieme alla comunità locale, è stato un momento di intensa preghiera: animata dai giovani “Gen”, concelebrata con alcuni sacerdoti del posto, tutti noi ci siamo accorti della grande partecipazione a quel momento, forse anche aiutata dalla bellezza della chiesa in cui abbiamo celebrato l’Eucaristia. Le vetrate colorate, rappresentanti i misteri principali della nostra fede, illuminate dal sole di mezzogiorno, proiettavano su tutti noi i colori più belli. Vere anche per noi, allora, le parole della Lubich, che per spiegare l’esperienza dei Focolari diceva: “Il segreto è quello di aver rischiato la vita per il più grande ideale: Dio!”. Forse questi nostri giorni sono stati un po’ così: “rischiati”. “Rischiati” perché eravamo davvero tanti e quando si è in tanti a volte qualcosa di importante può sfuggire; “rischiati” perché non tutti ci si conosceva e il non conoscersi è spesso il motivo che frena dal vivere nuove esperienze; “rischiati” perché... abbiamo vissuto delle divertenti esperienze di incontri “notturni”. Ma questi, se permettete, rimarranno nostri ricordi. A tutti noi rimangono questi e tanti altri ricordi: i sorrisi, i canti, la semplicità e la simpatia di ragazzi adolescenti, che contrariamente a quanto si dice, hanno voglia di vivere una vita vera e piena; l’impegno dei giovani che regalano la loro vita come educatori; il desiderio di camminare ancora insieme, “rischiando la vita per l’ideale più grande: Dio!”.
E se anche tornando a casa abbiamo trovato la nebbia, il freddo, qualche foglia in meno sugli alberi, non fa nulla: i colori della vita e della fede vissute insieme ci hanno caricati, come in un sogno, fino alla prossima bella stagione.



Bella vita la nostra?
Sì!