sabato 3 marzo 2012

QUATTROCENTONOVANTA


I primi passi di questo mio cammino, che sta arrivando quasi alla sua meta, li ho mossi perché impaurito. E’ stata la paura per un uomo a farmi alzare da quelle scale, è stato il timore che quel ragazzo, la sua richiesta, il suo apparirmi più morto dei morti, potessero farmi del male. Dalla paura, da una paura male interpretata, mi sono alzato e ho iniziato a camminare.
Poi son successe tante altre cose.
Ma una costante mi ha accompagnato in questi anni: l’accorgermi di come la paura riesce a ferire o a paralizzare più della cosa stessa temuta.
Lo trovo poco normale e un po' mi infastidisce.

Mi infastidisce la paura per le parole.
Mi infastidisce la paura per le persone.
Mi infastidisce la paura di dire la verità.
Mi infastidisce la paura di dire per una volta che le cose non vanno bene.
Mi infastidisce la paura di mostrare i propri difetti.

Mi infastidisce chi ha paura dei suoi amici.
Mi infastidisce chi ha paura di ricevere amore.
Mi infastidisce chi ha paura di perdonare o di essere perdonato.

Potrei continuare, ma in questi giorni vivo questi fastidi, non altri. 


L’altro giorno, mi trovavo in una classe di un liceo classico, una quinta superiore. Parlando un po’ della mia storia mi è capitato di aprire una piccola parentesi tra le cose che stavo loro dicendo. Riguardava l’importanza del perdono, l’importanza di mettere da parte quel grande o piccolo torto che abbiamo subìto per poter godere della cosa che conta di più: la vera amicizia, quella per la quale il buon Dio ci insegna a donare la vita. Suggerivo loro di sbrigare in fretta le litigate che avevano aperte, perché nella vita può darsi che improvvisamente non ci sia più tempo per farlo. Suggerivo loro di perdonare con manica larga, anche a costo di fare la figura dei fessi, anche a costo di sembrare ridicoli.
Le loro domande e i loro pareri mi hanno fatto capire che per alcuni avevo toccato un nervo scoperto: “La forza di perdonare qualcuno che continua a farti del male non è umana e forse non è nemmeno giusto perdonare chi non se lo merita e chi non chiede di essere perdonato”.

Mi avevano descritto quella classe come una “bella classe”. In senso ironico. Eppure la bellezza di quella classe è stata reale, concreta, piena. E l’ho riscontrata nei loro occhi quando mi fissavano vivi, parlando loro dell’importanza di perdonare tante volte.

 “Quante volte?
Settanta volte sette.
Non umano, divino!

p.s.: dedico questa canzone a loro e a chi leggerà. Mi sembra car-ina.



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